Nella sua lunga esperienza professionale Michele Zappella, uno dei più noti neuropsichiatri infantili italiani, si è costantemente confrontato con il mondo della scuola, che negli anni sessanta e settanta mise al centro della sua riflessione il tema dell’inserimento di bambini con disabilità.
In quel clima politico-culturale Zappella partecipò attivamente alla battaglia per l’eliminazione della classi differenziali. Una battaglia che ancora oggi rivendica, dovendo però constatare che tanto le modalità diagnostiche che le disposizioni legislative hanno paradossalmente finito per ricreare una più subdola forma di diversità e di emarginazione, proprio mediante quelle “etichette” (cioè le certificazioni rilasciate dagli specialisti alle famiglie e alle scuole) che nelle intenzioni dovrebbero garantire il più appropriato sostegno ai bambini con dei problemi. Zappella ha affrontato questi problemi nel suo ultimo lavoro, Bambini con l’etichetta. Dislessici, autistici e iperattivi. Cattive diagnosi ed esclusioni (Feltrinelli, 2021).
Quella di Zappella non è una posizione ideologica, ma nasce dalla pratica professionale e dalla sua attività di ricerca, che testimoniano una crescita esponenziale, in Italia e in molti altri paesi, delle diagnosi di dislessia e di autismo. Due sindromi certamente molto diverse per gravità e ricadute sulla vita dei bambini e delle loro famiglie, ma che hanno in comune l’essere spesso diagnosticate erroneamente.
Nella scuola italiana le diagnosi di dislessia e di problematiche analoghe sono le più diffuse e costituiscono negli ultimi anni una vera e propria epidemia. Come sappiamo, ai Dsa (disturbi specifici di Apprendimento) si sono aggiunti qualche anno fa i Bes (bisogni educativi speciali), riferiti a difficoltà meno gravi, anche temporanee, che prima o poi vengono affrontate da buona parte dei ragazzi.
L’autore nota giustamente che spesso la scuola “sembra soddisfatta di una diagnosi che la solleva da ogni responsabilità” e anche la famiglia finisce non di rado per apprezzarne i vantaggi. In proposito Zappella riferisce nell’introduzione l’inizio del colloquio con un ragazzo e la madre: “‘Io sono dislessico’, afferma con decisione Stefano, un ragazzo di undici anni con un ciuffo che ricade sulla fronte e un tratto di melanconia nel viso, lo sguardo rivolto in basso. […] Sua madre, accanto a lui, ribadisce le sue parole e aggiunge: ‘Sapesse quanti vantaggi hanno: il computer, compiti ridotti, interrogazioni facilitate…’”. In realtà per Stefano, come per molti bambini visitati da Zappella, non si trattava di dislessia, che è un disturbo di natura neurologica su base genetica, ma solo di “ritardi di lettura”, che nascono da situazioni di povertà culturale, da problemi emotivi o difficoltà dell’udito, recuperabili con esercizi appropriati.
Il tema delle diagnosi non corrette è fondamentale a maggior ragione in relazione all’autismo, spesso con conseguenze assai più drammatiche, tanto per i bambini che per le loro famiglie. Il tema è complesso, ma in estrema sintesi si può dire che l’autore vede le radici di molti errori diagnostici nella ricerca di una valutazione oggettiva mediante vari test e nella “pretesa di avere una terapia per l’autismo, inteso come condizione unica”, mentre in realtà alcuni sintomi sono comuni ad altri disturbi. Al successo di questa impostazione “si collega un crescente aumento delle diagnosi di autismo, che ha portato a parlarne in termini di epidemia”. All’inizio degli anni ottanta, l’incidenza dell’autismo in Svezia, Inghilterra e Stati Uniti era di circa 4 su 10.000, ma successivamente, nell’arco di pochi anni, si era moltiplicata per decine di volte (in Svezia 246 su 10.000). E alla moltiplicazione delle diagnosi ha corrisposto quella dei cospicui guadagni “che si fanno sull’autismo con interventi riabilitativi di vario tipo”.
Come si può immaginare, l’approccio diagnostico di Zappella è molto diverso. Ne parla in due capitoli intitolati Incontrare, osservare, ascoltare e Il miracolo nell’osservare, che sono tra i più belli e interessanti del libro. Questi titoli già dicono molto di un metodo di lavoro che Zappella ci dice essere già stato orientato da una delle sue prime esperienze professionali, nel reparto di psichiatria infantile del Children’s Hospital di Washington.
“Quando un bambino viene in visita da te,” gli disse il direttore “deve avere la sensazione che lo stavi aspettando”. Da questo punto di vista l’ambiente dove si svolge la terapia, e soprattutto la prima visita, è fondamentale. Secondo Zappella i bambini ricevuti in ambienti poco rassicuranti e quindi ansiogeni come ospedali e ambulatori possono modificare il loro comportamento e indurre lo specialista a formulare diagnosi sbagliate. Il suo studio è tutt’altra cosa e Zappella ce lo descrive mentre accoglie Giovanni per la prima visita, in una pagina particolarmente godibile. Da ogni angolo spuntano giochi e pupazzi di ogni tipo: trenini, birilli, casette, Pinocchio e il Grillo parlante, Biancaneve, Gatto Silvestro, un coccodrillo, una giraffa e molti altri tra cui un elefante, che da giorni chiedeva: “Ma quando viene Giovanni?”. I bambini sono incuriositi e rassicurati da questa festosa accoglienza e in genere molto più disponibili al rapporto con lo psichiatra.
La psichiatria, ci dice Zappella, deve essere intesa sia come “una scienza biologica naturale”, che in quanto tale deve essere in grado di riconoscere l’eventuale genesi neurologica di un problema, sia “una scienza umana”, centrata “sulla ricerca di un’alleanza tra chi conduce un intervento e l’altro, sia questo un bambino o un adulto…”. Zappella segue in questo l’insegnamento di due grandi psichiatri che considera i suoi più importanti maestri: Eugenio Borgna e Mario Tobino, le cui diverse esperienze hanno trovato nell’ascolto il più importante fondamento.
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