Da un lato troviamo la posizione di chi è fermamente convinto che ogni istituzione scolastica, dotata di personalità giuridica e autonomia didattica, costituisca un ente capace di agire non diversamente da ogni altra istituzione pubblica per la quale valgano sul serio i principi della “Carta dei servizi”, abbia cioè la vita piena e libera di una soggettività collettiva che rispetta le regole generali, ma non è eterodiretta. Pensiamo quindi a un istituto che, rispettando le regole nazionali e territoriali, possa entrare in rete con altri istituti per funzioni che fino ad oggi sono saldamente in mano al centro (leggasi ministero) e “presentarsi” all’utenza con una sua linea, sue proprie caratteristiche organizzative e didattiche di stile pedagogico-culturale, di strategie progettuali e operative in connessione con altre realtà del territorio (aziende, enti, istituzioni).



Facciamo un esempio. Tutti i licei di una provincia potrebbero costituire commissioni in rete per l’assunzione a tempo determinato e indeterminato di personale scolastico di certe classi di concorso (per esempio matematica o italiano). Più sono rare queste classi e più la rete si allargherà, divenendo interprovinciale o regionale e persino interregionale (penso a greco antico o a lingua russa o cinese). Le scuole primarie o gli istituti comprensivi di un certo territorio potrebbero costituire con le cattedre universitarie unità di ricerca-studio per migliorare la didattica e la formazione pedagogica dei docenti (non essere solo campo di lavoro per le pubblicazioni da far valutare all’ANVUR) e rimettere in azione nella realtà dei territori quello straordinario processo di ricerca che fu animato dagli istituti regionali (IRRSAE, poi IRRE: sigle ormai dimenticate). E via di seguito.



Dall’altro troviamo coloro che temono che questa presunta autonomia rischi di diventare anarchia, possa pregiudicare la stessa unità culturale del sistema nazionale e degenerare in una irreversibile forma di caos organizzativo del servizio pubblico, portando le famiglie a preferire le scuole cosiddette private (si dimentica volentieri che dal 2000 esiste una legge sulla parità) e indebolendo quello che ancora è un vanto del nostro sistema, ovvero la scuola pubblica italiana (sono pubbliche anche le scuole paritarie).

Io credo sia giunto il tempo per una sfida. In fondo già un paio di anni fa, in conseguenza dell’epidemia di Covid, il ministero affidò agli istituti di secondo grado il compito di elaborare le seconde prove dell’esame di Stato. Passo di straordinaria importanza verso un impegno vero delle scuole per attuare un’autentica responsabilità etica delle certificazioni. Qualcuno ricorderà anche come in passato l’esame sia stato basato tutto su commissioni interne con un solo presidente per istituto. Il nodo, dunque, è: perché mai le forme di autonomia vera fino ad oggi sperimentate sono sempre state dettate o da necessità economiche o da contingenti problematiche di emergenza generale? (anche in occasione di terremoti si provvide ad autorizzare deroghe all’organizzazione standard).



Il fatto è che per creare quel tipo di autonomia di cui la scuola ha bisogno (al di là di un cambio radicale della struttura del percorso curricolare sul quale tornerò in futuro), è necessario configurare unità operative in grado di gestire davvero questa autonomia. Ciò significa che devono sparire i provveditorati (oggi si chiamano ambiti territoriali). La questione degli organici va sicuramente tenuta sotto controllo, ma non può essere una forma di aggiogamento forzato, come attualmente è, al punto che talvolta (contravvenendo al dettato della Carta dei servizi) rende impossibile alle famiglie vedere realizzate le loro scelte territoriali e curricolari. Quella ipotesi più sopra delineata di arruolamento in rete non è possibile senza dotare alcune “scuole polo” di personale adeguato al compito. Ovviamente questo sarà possibile solo se i dirigenti scolastici saranno affiancati da uno staff stabile e adeguato alla complessità delle attuali istituzioni scolastiche. Deve finire la farsa delle funzioni strumentali. Sono necessarie figure giuridicamente definite che rappresentino il primo passo di una possibile carriera da dirigente scolastico.

E qui siamo al cuore del problema. Fino a quando non sarà creata l’Amministrazione scolastica unica (ASU) e non saranno definite con chiarezza le carriere dei vari soggetti, continueremo a vivere nella confusione. Siamo al paradosso ormai di uffici scolastici territoriali gestiti praticamente al completo da distaccati provenienti dal personale amministrativo delle scuole, il cui stato giuridico è diverso da quello di coloro che dovrebbero occupare i posti rimasti vuoti. Analogamente non è pensabile che si prosegua per volontariato e spirito di sacrificio da parte dei collaboratori dei presidi.

Sarebbe auspicabile, inoltre, che tutti coloro che parlano di scuola abbandonassero certa retorica da libro Cuore. Non dobbiamo temere anche grandi aggregazioni di istituti (possibilmente dello stesso ordine) gestiti da dirigenti capaci e dotati di forti staff di gestione. Il mito del preside che conosce i suoi allievi uno a uno appartiene alle leggende di un passato remotissimo. Ciò che conta è che il dirigente abbia strumenti adeguati per la comprensione della realtà che dirige, non che conosca uno a uno i suoi duemila studenti. Se poi, grazie alle condizioni di vita umane, conseguenti a un diverso assetto della sua organizzazione, saprà anche trovare il tempo per promuovere incontri diretti con le classi, bene. Avremo finalmente un vero dirigente, non un colonnello senza ufficiali e sottufficiali. La realtà oggi, a quanto so e mi risulta, è ben diversa: chi sta a scuola dalle 7 alle 23 (perché magari ha anche la sezione di istruzione degli adulti) è un miracolo che conosca i suoi familiari!

Va da sé, infine, che senza un organo collegiale territoriale, il quale, almeno sul piano consultivo, dia alla Regione e agli uffici regionali del ministero le indicazioni più opportune sui processi di accorpamento e disaggregazione, sarà impossibile avere un controllo di sistema. Come sarà impossibile avere una stabilità di gestione di un istituto, senza un vero Consiglio di amministrazione che si assuma le responsabilità di scelte strategiche coerenti con le linee generali definite dagli enti locali e nazionali ai quali spettano decisioni superiori in base all’attuale normativa (D.Lgs 112/98).

In conclusione: senza una rivisitazione radicale dell’organizzazione del personale e delle unità operative territoriali, sganciate dalla burocrazia ministeriale, senza un pensiero strategico che definisca l’equilibrio fra l’azione delle scuole e il necessario rispetto delle esigenze di politica territoriale nazionale, l’autonomia resterà un miraggio. Ma l’autonomia è necessaria, se non altro come atto di fiducia in se stesso di un Paese che continua a trattare i giovani, al di là di certa retorica, come “bravi ragazzi” che devono stare al loro posto, e non come il maggior investimento per il proprio futuro. In questa situazione la scuola non sarà più a poco a poco vissuta come lo spazio di crescita e formazione, ma come una necessità da sopportare quasi in apnea in attesa che passino i fastidi e i disagi, per uscire di nuovo all’aria aperta del mondo reale.

(2 – fine)

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