All’inizio di Insegnanti, il bel libro autobiografico e di riflessione sulla scuola di Roberto Contu, c’è la sedia lanciata da uno studente verso un compagno davanti al costernato docente al suo esordio nell’insegnamento. Poi “le due ore assolutamente più lunghe e interminabili” della sua vita, il ritorno a casa, la moglie che lo guarda stralunata, la convinzione di non essere tagliato per insegnare. Ma è solo un flashback.



L’autore (docente di italiano e storia negli istituti superiori) non solo decide di restare nella scuola invece di dedicarsi alla ricerca universitaria, ma diciassette anni dopo può dire che quella scelta la ripeterebbe “settanta volte sette”.

Un lieto séguito che da solo può incoraggiare i colleghi (sicuramente numerosi) che si trovino oggi ad affrontare analoghi inizi di “puro e adamantino caos”. Contu, però, nella sua “lunga chiacchierata” ci propone un’idea molto esigente dell’insegnamento, a cominciare dalla necessità di studiare in modo permanente e addirittura “forsennato”; che è, tra l’altro, una condizione necessaria (ma non sufficiente: ne vengono elencate molte altre non meno importanti) perché un insegnante possa considerarsi anche un intellettuale.



Nel libro molta attenzione e molto sforzo di comprensione sono dedicati al mondo degli allievi, che l’autore vede cambiati non solo rispetto al tempo in cui era allievo lui stesso, ma anche nel corso della sua esperienza di insegnamento, soprattutto in rapporto all’evoluzione delle tecnologie che i ragazzi si trovano tra le mani. Il modo di capire e di apprendere della “generazione Zero”, quella nata intorno all’anno Duemila, agli occhi di Contu sembra “segnare un punto di non ritorno” rispetto a “un modello di trasmissione intimamente deduttivo, concettuale, sequenziale”.

In parole povere, l’ipotassi, cioè il pensiero organizzato in modo prevalentemente gerarchico, nei giovani cede sempre più il passo “alla paratassi delle connessioni multiple”. Di conseguenza si creerebbe la necessità di “una didattica modulare, autoconclusiva a ogni passo”, in quanto “più aderente al tempo presente”.



Il dibattito è aperto, come suol dirsi; apertissimo e complesso. Si tratta di capire se questo slittamento è del tutto inevitabile, se è invece possibile un serio negoziato tra le nuove tendenze e il tradizionale modo di apprendere o se, infine, la scuola deve essere il luogo di una conservazione – critica ma determinata – del pensiero “ipotattico”.

La domanda che ci si deve porre è: le nuove generazioni, uscendo da una scuola “paratattica”, saranno in grado di capire la complessità del reale, una capacità già oggi poco di moda? E qui peserà l’inerzia – o l’indifferenza – finora dimostrate da chi governa la pubblica istruzione rispetto alla necessità di studiare sul campo la scuola com’è veramente, lasciando perdere le astratte proclamazioni nuoviste. Per parte sua Contu sembra non avere dubbi: “Non è vero che i ragazzi sono peggiorati: semplicemente capiscono e imparano in modo diverso”.

La curiosità non superficiale per il nuovo non fanno però di Contu un “nuovista” acritico. Spicca, anzi, a metà del libro il capitolo dedicato all’Elogio della lezione frontale, bestia nera dei tanti che appioppano volentieri la qualifica di “laudatores temporis acti”. Contu, che pure auspica il possesso di una molteplicità di approcci, la considera “la pietra angolare del mestiere”, con gli allievi disposti all’antica e il professore munito solo di voce e di gessetto. Per un motivo molto semplice: “Io so che i risultati migliori a scuola li ho ottenuti e li ottengo tuttora con lezioni frontali”. Purché, aggiunge, mi limiti ad alcuni argomenti, “quelli che conosco molto bene”. Con un criterio-guida valevole con ogni metodologia: bisogna sapere 1000 per trasmettere 10.

Ma Insegnanti indica anche altri tratti della professione che i docenti dovrebbero conservare o recuperare nel solco della tradizione: la centralità del proprio ruolo nell’apprendimento (forse in polemica implicita con l’idea dell’insegnante “facilitatore”); la giusta distanza fra chi insegna e chi impara, anche se non “siderale” come un tempo (no, quindi, al modello del professor Keating nell’Attimo fuggente, no al messaggio “Ehi, io sono come voi”, insomma niente fobia dell’alterità fra docente e allievo); infine, il confronto, necessario anche se problematico, con il canone letterario.

Su questo il libro è in parte anche un utile vademecum didattico. Contu ci fa infatti seguire ora per ora, naturalmente a grandi linee, lo svolgimento di un’unità didattica su Petrarca; e poi, nel capitolo spiritosamente intitolato Portare a spasso il canone, plana sul programma del triennio indicando – sulla base di un’ormai lunga esperienza – quali autori e quali argomenti “reggono” nel confronto con la classe, quali (pochi) “crollano” irreparabilmente e quali si possono invece recuperare tenendo conto delle odierne sensibilità giovanili.

Un cenno, infine, al capitolo Autorità, autorevolezza, autoritarismo. Dopo avere elencato le caratteristiche personali che conferiscono autorevolezza, Contu conclude che gli insegnanti hanno autorità in quanto sono autorevoli – una condizione che si può anche acquisire lavorando su se stessi.

Questo è senz’altro vero, però l’autorità non è solo il riflesso del prestigio conquistato sul campo, prima ancora è la legittimazione che la società assegna comunque al ruolo di insegnante. Riguarda o dovrebbe riguardare, quindi, tutti i docenti. Un tempo anche l’insegnante mediocre veniva rispettato, mentre le spinte anti-autoritarie post Sessantotto hanno volentieri confuso l’autorità e l’autoritarismo, cioè con il suo uso ingiusto, promuovendo l’idea che maestri e professori dovrebbero essere tutti “carismatici”. Un’utopia, probabilmente, anche per il selezionatissimo corpo insegnante finlandese, figuriamoci per quello italico, che viene via via integrato da nuovi docenti spesso senza alcuna verifica della loro preparazione.

È invece ragionevole pretendere (anche nell’interesse educativo dei ragazzi) che tutti gli insegnanti nel loro complesso siano sostenuti da un clima di serietà e di rispetto delle regole che spesso manca; ed è invece un fattore fondamentale dell’apprendimento.