Rientrare in una scuola da adulti, come genitore o come docente, è una strana esperienza.
La memoria non può fare a meno di richiamare episodi, aneddoti e, soprattutto, il clima della propria vicenda personale di alunno, ma la realtà di oggi appare ben diversa.
Dell’istituzione poi se ne parla da sempre, e anche il più distratto ha sentito dire e pensa che occorra una riforma. Essa sembra una malattia endemica di cui si dibatte da decenni, senza trovare alcun rimedio.
Se poi il rientro avviene come docente in una scuola di periferia, in quella terra di nessuno che è la scuola media, lo sconcerto è davvero totale e spiazzante.
Annaspando in cerca di un appiglio, ci s’imbatte in colleghi che cercano di sopravvivere al presente senza troppi danni, in attesa di un desiderato trasferimento e nella paludata soluzione offerta dai discorsi programmatici su come fare scuola, offerti come principale risorsa cui riferirsi.
Ci s’imbatte insomma non nel salutare richiamo a giocarsi personalmente e a non avere paura di essere se stessi con il proprio patrimonio di conoscenze e di vita, ma nell’implicito richiamo ad affidarsi agli strumenti che possano difendere dai problemi e dai danni di un contatto con utenti difficili, genitori e ragazzi. Il principale di questi strumenti è… avere le carte in ordine, cioè poter dimostrare a sé e agli altri di aver fatto e tentato tutto il possibile.
Ecco allora il ricorso al microlinguaggio, quasi incomprensibile per i non addetti ai lavori, delle programmazioni, delle strategie, delle sigle specifiche, come se ciò possa garantire il possesso della professionalità e competenza e possa proteggere dall’insuccesso nel gestire una classe e nel far fare un percorso di apprendimento.
Qualora poi s’introduca la questione sicurezza, l’argomento diventa quasi maniacale, soprattutto da parte dei dirigenti scolastici, sulle cui spalle gravano fin troppe responsabilità specifiche, dalle quali si cerca di garantirsi con tutte quelle pratiche amministrative previste dalla normativa o, anche, consigliate dalla casistica possibile. E allora… altro che carte in ordine!
Eppure esse non riescono a difendere e a proteggere da ciò che, drammaticamente, accade nella vita, come il suicidio del ragazzo tredicenne lanciatosi dal quinto piano per i risultati scolastici rimproveratigli dai genitori. Nella scuola che frequentava sono stati necessari, a posteriori, ben altri interventi e ripensamenti per i suoi compagni, i docenti, il dirigente. Quanto sarebbe necessario che ci fosse in ogni scuola qualcuno capace di ascoltare, osservare, intervenire! Oltre il solito trantran quotidiano, anche quando esso è virtuoso, come nell’istituto di cui si parla.
Troppo spesso invece, parlando in generale, sia i docenti che i dirigenti scolastici si affidano ai documenti e agli aspetti burocratici, piuttosto che interrogarsi sul perché e sul come fare scuola per incontrare quegli uomini e quelle donne in crescita che frequentano le aule scolastiche.
Non si vuol dire che sia sempre così; ci sono infatti ancora tanti, dirigenti e docenti, capaci di ricordare che, pur utilizzando al meglio ogni strumento, occorre aver presente che esso è finalizzato al primo e principale destinatario dei loro sforzi che è il ragazzo, l’adolescente, il giovane uomo che hanno dinanzi.
Solo l’incontro fra due persone capaci di parlare e parlarsi è ciò di cui c’è bisogno nella scuola come in ogni luogo della terra. I più giovani magari tentano inizialmente di sottrarsi, ma se si trovano accanto qualcuno che ha a cuore il loro cammino e li interpella come compagni di strada con cui cercare senso e significato per l’esistenza, per il presente ed il futuro, sanno essere leali e si fanno raggiungere.