È passato del tutto inosservato, e non mancano ragioni perché ciò accadesse, l’Atto di indirizzo politico-istituzionale per l’anno 2021 del ministro dell’Istruzione Azzolina. Si sa la fine che fanno certi documenti, prodotti a volte più per routine che per effettiva necessità. In una situazione emergenziale come quella che stiamo attraversando, inoltre, sembra che la scuola più che dai profili strategici sia retta dai dati statistici dell’Istituto superiore di sanità, il vero deus ex machina della situazione.



Ad ogni modo, la realtà detta sempre le sue regole anche ai cultori delle curve di contagio, nel senso che la raccomandazione di non andare a scuola in presenza, suggerita dall’andamento epidemiologico, è stata battuta, a quanto pare, dal desiderio degli alunni delle scuole superiori di rivedere vis à vis i propri compagni di classe.



Ora, è proprio rispetto a questa urgenza, forse più esistenziale che culturale (nella quasi totalità dei casi i ragazzi hanno dichiarato di voler tornare fisicamente nelle aule per ritrovare la socialità perduta, più che il gusto di apprendere in diretta), e alla più volte dichiarata volontà di rimettere in piedi (leggi: scuola in presenza) il grande meccanismo pubblico che conferisce alle giovani generazioni conoscenze e competenze e che era, ed ancora in parte è, ridotto alla comunicazione a distanza, è rispetto a tutto questo che appare terribilmente stonato quanto si legge nel suddetto documento.



L’Atto di indirizzo ruota tutto, almeno nella parte che più va diritta al cuore della questione, attorno a questo principio: “L’innovazione didattica è la dimensione fondamentale per il rilancio del sistema di istruzione e il punto di partenza per porre gli studenti al centro della loro esperienza scolastica”. Si tratta della frase principale, quasi uno slogan, che giunge dopo una serie di ovvietà (misure inclusive, diritto allo studio, edilizia scolastica, ecc.) e che riassume il paragrafo centrale del testo in questione intitolato appunto “Innovare metodologie didattiche e ambienti di apprendimento”.

Bene, ma come si prevede di realizzare questa innovazione didattica? Forse richiamando il valore della cultura o dell’insegnamento inteso come introduzione alla complessità del reale attraverso una qualche ipotesi esplicativa e assunta da chi la propone agli altri come chiave interpretativa della totalità dell’esistenza? No, tutto questo è estraneo al documento e a chi lo ha partorito. Non interessa a chi guida la macchina di Viale Trastevere che nella scuola, in presenza o a distanza che sia, si realizzi il miracolo del sapere che da maestro ad alunno riaccade nel gioco delle libertà reciproche stimolate da un’ipotesi introduttiva e orientativa.

Ciò che interessa è promuovere le metodologie didattiche innovative consistenti in: 1) superamento della lezione frontale; 2) sviluppo della didattica digitale; 3) potenziamento dell’attività degli animatori digitali e delle équipe formative territoriali; 4) promozione di nuovi ambienti di apprendimento; 5) potenziamento delle infrastrutture per l’apprendimento a distanza. Ecco, questi sono i paletti che circoscrivono l’ambito del documento. Che non finisce qui, ma prosegue con altre ovvietà: ridurre la distanza tra scuola e lavoro, sviluppare gli Its, incentivare il reclutamento dei docenti, ecc. Forse è troppo supporre che l’estrapolazione che abbiamo fornito costituisca nell’insieme dei suoi elementi una “filosofia” della scuola. No, il termine suona troppo altro. Certamente però è visibile una tendenza prettamente tecnocratica.

Si affaccia ancora una volta l’ottica per cui garantendo l’ambiente a banda larga e il flusso veloce delle informazioni si è a posto con la propria coscienza di politico o amministratore che dovrebbe mettere in mano ai giovani lo strumento della loro elevazione formativa. Il sospetto che la pandemia abbia accentuato questo processo di trasformazione della scuola in ambiente neutro dove le informazioni non sono vagliate, ma prese nella loro arida effettualità, senza nemmeno presumere che siano state elaborate da altri, diventa qui smaccata evidenza. L’Atto di indirizzo in fondo suggerisce, contravvenendo tante affermazioni contrarie di provenienza ministeriale, che la didattica digitale (dunque benissimo anche se distanziata) è il futuro della scuola italiana.

O se vogliamo, sottende la limitata visuale di questo momento: una scuola consegnata al digitale, come se questa fosse la panacea risolutiva di ogni divario in cui si dibatte il nostro sistema. E del digitale da anni numerosi studi hanno confermato la fragilità e (tutto sommato) la vanità. Infatti il digitale deve essere giudicato come tutte le altre fonti di conoscenza. È come un pavone che terminata la ruota non è altro che un animale che razzola come tanti altri, forse anche più brutto. Il digitale è perfetto e straordinario se utilizzato dentro un orizzonte di senso e significato. Questo è il punto. Ben venga dunque il ritorno alla scuola in presenza, ma per giudicare la realtà e farsi anche suoi discepoli se occorre. Mai per diventare schiavi di chi le informazioni le organizza per avere facili fruitori piuttosto che attenti critici

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