Nei giorni scorsi la ministra Azzolina ha ribadito chiaro e forte il suo “No al regionalismo delle diseguaglianze”, intervenendo in audizione presso la Commissione parlamentare per le questioni regionali, dove è ancora in corso l’indagine conoscitiva sull’attuazione del regionalismo differenziato, cominciata nel 2019. La ministra ha letto un lungo discorso, con puntuali riferimenti normativi. Ma la frase che più ha colpito, come riportato dai media, è che “la diseguaglianza tra i livelli di sviluppo dei diversi territori induce a scongiurare l’opportunità di un regionalismo differenziato in materia di istruzione”.



È il centralismo delle inefficienze che ha prodotto le diseguaglianze

Già l’espressione “scongiurare un’opportunità” sembrerebbe una contraddizione in termini, perché si “scongiura” un danno, non un’opportunità che è prevista dalla Costituzione. Traspare, insomma, un atteggiamento di chiusura fortemente ideologico, da parte non solo della ministra, ma soprattutto di quel Movimento 5 Stelle che si proponeva come “post ideologico” e aperto al regionalismo differenziato, salvo poi fare un dietrofront radicale che l’elettorato ha dimostrato di non capire affatto (vedi recenti elezioni regionali).



Restando in materia di istruzione, basta semplicemente constatare come decenni di centralismo ministeriale abbiano prodotto inefficienze e diseguaglianze insuperabili. Guardiamo i risultati Invalsi, i numeri della dispersione, o l’annuale sempre più disastrosa attribuzione degli organici alle scuole. Da 20 anni c’è l’autonomia delle istituzioni scolastiche, ma è un’autonomia debole e assolutamente dipendente dalle burocrazie ministeriali. Dal 2013 è in vigore il sistema nazionale di valutazione, che obbliga ai piani di miglioramento. Ma anche questi sono diventati adempimenti puramente burocratici, che producono inerti montagne di scartoffie, beatamente ignorate dalla comunità scolastica.



Insomma, allo slogan della Azzolina è fin troppo facile contrapporre un “basta col centralismo delle inefficienze”, che le diseguaglianze le ha prodotte, senza mai avere la capacità di trovare soluzione alcuna. Anzi, specialmente in un momento come questo è necessario avere “visione”, cioè uno spirito pragmatico e aperto, capace di cogliere (non di “scongiurare”!) tutte le opportunità.

Titolo V, un cambio di paradigma che non piace agli “statalisti”

La riforma del Titolo V del 2001 comporta un cambio di paradigma “sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza” (articolo 118 Cost.). La nostra Costituzione apre a un’importante evoluzione della società a livello organizzativo e decisionale, riservando al centro i compiti che la periferia non è in grado di svolgere e valorizzando le capacità dei territori. “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato”. Il cambio di mentalità è radicale. Forse per questo nell’ultimo ventennio è stato così difficile trovare un nuovo equilibrio fra spinte innovatrici e resistenze conservatrici.

La riforma del Titolo V, che ha aperto all’effettiva possibilità di realizzare un modello statale decentrato, non è mai piaciuta agli “statalisti” e “centralisti”. Negli anni recenti, ben due governi (Monti e Renzi) hanno tentato di ri-modificare questa parte della Costituzione, riportando in capo allo Stato la competenza legislativa in diverse materie e introducendo la cosiddetta clausola di supremazia statale.

A questo punto però, falliti i tentativi di neo-centralismo, non resterebbe che impegnarsi a trovare soluzioni e accordi per dare attuazione, nel migliore dei modi, a quel principio di sussidiarietà enunciato all’articolo 118 e prima ancora nel Trattato di Maastricht del 1992.

Quanto al timore, agitato da alcuni, che l’autonomia differenziata vada a scardinare l’unità nazionale, è stato smontato dallo stesso presidente Mattarella, con la precisazione che l’autonomia “rappresenta un valore costituzionale e apporta un contributo di grande rilievo che qualifica l’unità nazionale”, evidenziando così il cambio di paradigma. Il dubbio riguarda piuttosto la capacità dell’attuale classe politica che siede in Parlamento di farsi responsabile di un compito storico rimandato da troppo tempo.

Il punto della situazione sul regionalismo differenziato

Al momento, tutto procede a rilento. Nella precedente legislatura, si erano attivate per prime tre regioni: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna. Il 28 febbraio 2018, il Governo allora in carica ha sottoscritto tre distinti Accordi preliminari, con un primo elenco di materie, per una durata decennale. L’Intesa doveva essere approvata dalle Camere con “legge rinforzata”, a maggioranza assoluta dei componenti.

Con l’avvio dell’attuale XVIII legislatura, il governo giallo-verde aveva posto il regionalismo differenziato fra le questioni prioritarie. Tuttavia, il primo scoglio non superato è stato il trasferimento delle risorse necessarie per un autonomo esercizio delle competenze. Con l’attuale governo giallo-rosso, a ottobre 2019 il nuovo ministro per gli affari regionali, Francesco Boccia, ha espresso l’intenzione del Governo di ripartire dal lavoro svolto, fermo restando il rispetto del “principio di coesione nazionale e di solidarietà” e subordinando l’attribuzione alle Regioni di ulteriori forme di autonomia alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (Lep). Boccia ha altresì annunciato un’iniziativa legislativa volta a definire una “cornice normativa unitaria”, in cui definire gli interventi di attuazione delle autonomie differenziate.

È già passato un anno e finora è tutto fermo. Forse un’accelerazione potrebbe essere data dalle risorse in arrivo del Recovery Fund europeo, da utilizzare negli interventi di perequazione infrastrutturale tra Nord e Sud. Da un bel po’ di tempo, inoltre, è in corso un’indagine conoscitiva che sembra non finire mai presso la Commissione parlamentare per le questioni regionali, nell’ambito della quale è stata sentita anche la Azzolina.

Serve consapevolezza e un cambio di mentalità

L’atteggiamento più sensato oggi sarebbe di affrontare il cambiamento come un’opportunità di sviluppo per il Paese, portando a conclusione il processo riformistico avviato 20 anni fa, dimostrando maturità politica e istituzionale, che significa entrare in una logica di sano pragmatismo per superare i problemi aperti invece di rinviarli sine die, dalla definizione delle materie secondo le esigenze peculiari dei territori alla necessaria ri-allocazione delle risorse, al rispetto del criterio di equilibrio e coesione che spetta allo Stato garantire.

Il cambio di paradigma esige atteggiamento di apertura, capacità di negoziazione, leale collaborazione e responsabilizzazione. Non a caso il presidente dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, sentito due mesi fa nell’ambito della stessa indagine conoscitiva, ha avuto parole ben diverse dalla Azzolina. Serve “una nuova consapevolezza sul ruolo che il sistema delle regioni e delle autonomie nel suo complesso può e deve rivestire nel nostro ordinamento e nella concreta azione istituzionale e amministrativa”, ha detto Bonaccini, esprimendo chiaro e forte questo concetto proprio in una fase particolarmente difficile per il Paese travolto dalla pandemia Covid-19, sottolineando altresì che servono tempi certi. “Ritengo davvero necessario che il Parlamento, il Governo e le istituzioni regionali assumano la responsabilità di iniziative che coniughino gli interessi dei territori con le esigenze di visione strategica e unitaria del sistema Italia, alla prova di un passaggio di eccezionale complessità”.

Non si può che essere d’accordo, per le ragioni sopra dette, con gli ormai numerosi rappresentanti dei territori che considerano strategico per il rilancio dell’Italia sviluppare (in tempi non biblici) il percorso di autonomia, garantendo sia l’unità giuridica ed economica della nazione, ma anche la differenziazione territoriale, secondo le esigenze che vengono dal basso.