Chi lavora nella scuola, e, più in generale, chi si occupa attivamente dei bambini nel proprio lavoro, è bene che abbia in mente che il rischio dei piccoli di essere messi da parte, emarginati, è parte della società industriale contemporanea. Società precedenti avevano bisogno di bambini che presto diventassero adulti: se maschi, che s’impegnassero nel lavoro, se femmine, che entrassero nel ruolo di donne e in primo luogo mettessero al mondo molti bambini, visto che tanti morivano.



Siamo ai primi del quattrocento a Siena, nell’Ospedale S. Maria della Scala dove le pitture del Pellegrinaio rappresentano ciò che la Repubblica mostrava come sue glorie. Tra queste Matteo di Bartolo dipinge l’educazione dei “gettatelli”,  bambini messi nella ruota per l’ospizio: allattati da balie prosperose, li vediamo poi a scuola con un severo precettore, in seguito ben vestiti a giocare a scacchi e tra loro. Infine, da uomini vanno a lavorare in città mentre le fanciulle avranno la dote dall’istituto e si sposeranno con i rituali dell’epoca. Bambini tenuti e allevati come preziosi da una società consapevole del loro valore.



Ma con l’industria la situazione cambia. Venendo all’oggi, nella società dei consumi ciò che conta è consumare ora, subito, più che si può, e per questo obiettivo ci vogliono persone che sappiano relazionarsi bene per vendere e sappiano leggere, scrivere e far di conto. Bambini e adolescenti ritenuti non adatti a questi obiettivi vanno scartati, messi da parte nell’immediato e nel futuro. Ed ecco che nelle istituzioni si sviluppa la “caccia al diverso”, innanzitutto in quelle più direttamente collegate allo Stato che tramite i suoi ministeri e le sue istituzioni superiori dà precise indicazioni alla scuola e alle Asl. Siamo in un mondo “globale” e strutture di altri Paesi contribuiscono alla guida di questo cambiamento culturale.



Si assiste così a una moltiplicazione delle diagnosi, in primo luogo dell’autismo, grave incapacità nel saper entrare in relazione con gli altri, e poi dislessia, disgrafia, discalculia che indicano una carenza nell’imparare a leggere, scrivere e far di conto. Per l’autismo i valori di prevalenza che negli anni sessanta, settanta e prima metà degli ottanta davano le stesse cifre di 4:10.000 in tutto il mondo, cominciano successivamente a salire e nel 2018 arrivano a 250:10.000 negli Stati Uniti, e, in quegli anni, a valori simili in Svezia. Questi risultati vanno di pari passo col cambiamento progressivo nella definizione del disturbo e soprattutto nell’uso di test, considerati molto importanti. Il messaggio che viene dato è la inguaribilità: “ma può migliorare”, facendo terapie che possono durare sino a 40 ore alla settimana, in buona parte o totalmente a carico dei genitori. In parallelo si sviluppa un grande business con cifre da capogiro: uno studio americano parla di 268 bilioni di dollari per i costi annuali dell’autismo e, nella prospettiva del continuo aumento di questa diagnosi, prevede che nel 2025 il costo salirà a 461 bilioni. Su questo si fanno buoni affari anche da noi.

Se torniamo indietro nel tempo vediamo nella “moltiplicazione” il primo segno clamoroso dell’emarginazione. Così nella prima metà dell’ottocento in Lombardia, epoca di grande sviluppo industriale, in pochi anni ci fu un grande aumento del numero di “trovatelli”, bambini che venivano messi nella ruota e lasciati negli ospizi: da poche migliaia nei tempi pre-industriali, erano arrivati a 54.000 nel 1854: in gran parte “falsi” orfani, figli di operai e operaie che lavoravano 11, 12 ore al giorno e non avevano il tempo per occuparsi di un bambino di pochi mesi.

Un secolo dopo, negli anni 1950-60, abbiamo una moltiplicazione delle diagnosi in un contesto diverso. Sono anni in cui milioni di lavoratori vanno dal meridione al Nord d’Italia, in Svizzera e in Germania. In questo periodo vengono proposte le classi differenziali in aggiunta alle speciali e agli istituti psicopedagogici. Ancora una volta sono i test il criterio dominante nella diagnosi, spesso collettivi, e la diagnosi più frequente è il ritardo mentale. Negli anni sessanta i numeri aumentano di anno in anno e, i test collettivi arrivano a percentuali sino al 14,5% del totale dei bambini da mettere in classi differenziali e speciali e si arriva a oltre 350.000 bambini in istituto.

Questa volta, però, questo indirizzo si scontra con una cultura più vasta che denuncia lo sfruttamento dei lavoratori e ci si rende presto conto che i bambini che vanno in queste classi e istituti sono in gran parte figli di emigrati, che parlano in dialetto e vengono da famiglie povere, spesso illetterate, e che non sono affatto dei bambini ritardati come vorrebbero quei test: questo percorso ne fa degli emarginati a scuola e li avvia a un futuro di ultimi nel lavoro o fuori di esso. Questa consapevolezza è come un cerino in un pagliaio e in pochi anni le classi differenziali, speciali e gli istituti vengono chiusi in gran parte del nostro Paese, e in seguito per legge.

Anche nell’oggi la moltiplicazione delle diagnosi è la controparte di un gran numero di false diagnosi: gran parte dei bambini diagnosticati come dislessici, il cui numero è in continuo aumento, hanno in realtà dei ritardi dell’apprendimento della lettura – quattro su cinque secondo uno studio francese – e potrebbero essere aiutati con successo in classe e in famiglia. Lo stesso riguarda le diagnosi di autismo: spesso si tratta di altri disturbi che in molti casi richiedono interventi del tutto differenti, che, se attuati, portano alla normalità in molti casi.

C’è anche una componente nuova: i bambini in Italia sono pochi e sentirsi dire che hanno un danno biologico con conseguente inguaribilità ha un effetto devastante nelle famiglie: dopo la diagnosi di autismo quattro madri su cinque vanno in depressione e dopo più di un anno molte lo sono ancora. In molti casi le famiglie vanno a pezzi.

Queste “diversità”, inoltre, per come è strutturata la nostra scuola con rappresentanti di genitori e di studenti, vengono spesso conosciute da tutti per cui vengono interiorizzate dai ragazzi stessi. “Sono dislessico” mi dice un ragazzo di 11 anni che ha, invece, un modesto ritardo di lettura, e a lui fa eco sua madre con la stessa definizione. In questo modo la diagnosi è diventata un’etichetta, fatta propria dai ragazzi stessi che ne sono vittime, seguita da un’emarginazione in classe e spesso accompagnata da fenomeni di bullismo.

Di tutto questo se ne parla in un mio libro, Bambini con l’etichetta, che porta anche alcuni esempi di modi migliori di rapporto con i ragazzi a scuola e di altre alternative.

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