Ho recentemente pubblicato su una delle maggiori riviste mondiali di pediatria, assieme a colleghi Usa e canadesi, un articolo intitolato: “Cercare la normalità mentre la curva si appiattisce”, riferito al trattamento dei bambini in epoca post-Covid-19.
Tra le conclusioni, dopo un attento esame della situazione medica e sociale dell’infanzia in epoca Covid, scrivevamo: “Mantenere le famiglie e le comunità al sicuro e i nostri pazienti sani non è un compito da poco. Ma abbiamo un’opportunità, se prestiamo molta attenzione alle vulnerabilità esposte da questa pandemia, per creare condizioni migliori per i bambini rispetto a prima dell’inizio della pandemia”. La curva di infezione si sta appiattendo, si grida all’emergenza, ma non si vede nessun progetto nuovo per l’infanzia. In realtà nessun progetto nuovo per nessuno. Eppure tanti hanno parlato del post-Covid come un’epoca in cui sarebbe cambiato qualcosa radicalmente.
Invece si continua a rincorrere l’emergenza, spesso trascurando e tralasciando ancora una volta i deboli, i bambini con disabilità, nelle loro necessità scolastiche o sociali. Già, perché loro le lezioni a distanza non possono farle e il loro diritto allo studio, alla socialità che fine fa? E non ci si crede quando si pensa che i bambini hanno dovuto rispettare le stesse regole restrittive degli adulti, sentire le stesse litanie di morti e di contagiati e vedere le stesse facce mascherate che vedevano i loro genitori.
Non è un problema italiano, ma globale: la politica sa pensare solo alla rielezione prossima ventura, per non dare un vantaggio a chi verrà dopo (se perdesse le prossime elezioni) e perché è intrinseco delle ultime 2-3 generazioni non aver piani e progetti. E lascia tutti nella solitudine dove pensano più allo smartphone che al gioco, al lavoro, alla famiglia.
D’altronde, cosa è la mascherina (pur utile oggi) se non il simbolo di un mondo autistico dove la gente non si sfiora più, in cui si sta a distanza perché non si è amici, ma al massimo complici o collaboratori? In cui come diceva Gunther Anders, siamo invidiosi delle macchine che abbiamo noi stessi creato, perché loro hanno un’efficienza che vorremmo noi nella società in cui o produci o muori; e sono senza sentimenti, come bramiamo per noi stessi per non soffrire, tanto che ci si impasticca o si svuotano bottiglie di vodka già a tredici-quattordici anni.
Già, perché il mondo dei bambini è ormai l’esempio di questo fallimento. Se la ridono di fronte alle lezioni a distanza, dove se possono copiano, quasi sempre spengono schermo e microfono lasciando il prof chiacchierare di fronte a non si sa chi. E sono soli. Ci sarebbe tanto da costruire.
Primo, una scuola finalmente a misura di bambino e non di adulto, dove gli orari del sonno, le esigenze di aria aperta, il bisogno di imparare siano rispettati e non rovinati come avviene ora rispettivamente dalla sveglia in pieno sonno Rem, dalla vita al chiuso con un computer come totem e dall’insegnamento svilito, tanto non si boccia più nessuno perché l’istituto non perda “clienti” (e i ragazzi lo sanno e nella loro ingenuità pura e diabolicamente giovanile ne approfittano).
Secondo, durante la quarantena abbiamo scoperto che le case – tranne quelle dei Vip – sono solo dormitori, dove nemmeno a tavola ci si incontra più, dove se si sta tutti contemporaneamente (come è avvenuto per il lockdown) non c’è spazio per respirare, parlare, seguire lezioni, seguire i figli. E le città non hanno spazi per bambini, tanto che nessuno si fida più a lasciarli uscire e le istituzioni invece di istillare fiducia peggiorano le cose vietando per decreto ai minori di andare a casa da soli. Piazze e quartieri con un senso e non solo luoghi di transito senza esser punti di incontro; un tempo i bambini erano i padroni delle strade, oggi non li vedete più in giro, erano padroni delle case, oggi nemmeno lì possono toccare niente, erano padroni dei giochi selvaggi, oggi al massimo fanno sport o danza sotto controllo o vanno alle feste. “Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?” scriveva Dante Alighieri; oggi dovremmo dire “le leggi ci sono, ma c’è anche la necessità di vita, ma nessuno pare interessarsene”: troppe leggi, decreti, protocolli che in una sorta di “effetto Suv” sembrano dare certezze e sicurezze e producono al massimo mediocrità, perché fanno abbassare l’attenzione sull’essenziale.
Terzo, l’ambiente: un bambino non è un piccolo adulto, quindi non è vero che se una cosa non fa male all’adulto non fa male neanche al bambino: troppo fragile e evolutivo è l’organismo infantile per non capire che il bambino è un mondo a sé e merita particolari cautele, dall’esposizione alle plastiche e ai campi elettromagnetici per i quali non esistono ancora linee guida specifiche per l’infanzia e si adottano quelle per gli organismi adulti.
I bambini ci guardano e non capiscono, perché nessuno li considera, perché si parla solo di mascherine, distanziamenti, banchi a rotelle e non del loro futuro, di quel futuro di pensieri alti, di progetti a lungo termine; poi si rassegnano, poi diventano grandi come noi che li curiamo o che scriviamo di loro e il ciclo ricomincia. Qualcosa o qualcuno saprà romperlo?