Quest’estate gli Europei di calcio, le Olimpiadi, gli Europei di pallavolo, hanno tenuto incollato allo schermo milioni di italiani. Le molte e sorprendenti vittorie hanno risvegliato quel senso patriottico di appartenenza, l’orgoglio di essere italiani e di sentirsi degnamente rappresentati in cima ad un podio.

Ma, alla base di queste vittorie e di questi talenti, c’è un’annosa questione che da sempre interroga il mondo dello sport sul “come” arrivare a raggiungere tali prestazioni. Cominciare sin da piccoli a individuare possibili futuri talenti o creare bacini di utenza più ampi e dalle capacità motorie magari meno specifiche ma più complete?



Meglio un atleta di 14-15 anni “pronto” da lanciare nel mondo dell’élite sportiva o meglio posticipare di qualche anno la sua entrata sui campi che “contano”? In queste settimane di ripartenza per molte associazioni e società sportive in cui tante famiglie stanno scegliendo dove iscrivere i propri figli e in cui i vari staff stanno programmando le attività, sarebbe interessante continuare a porsi tale interrogativo.



Lo studioso Coté nel suo DMSP – Modello di sviluppo della partecipazione sportiva – individua le 3P che dovrebbero sostenere una crescita armonica, completa, a lungo termine e motivata di un atleta: prestazione, partecipazione e sviluppo personale. Tale modello si scontra, però, con la quotidiana realtà delle nostre strutture sportive, dei modelli di reclutamento delle società professionistiche e con alcune scelte economiche.

È più vantaggioso, allora, in termini di risultati sulla lunga distanza, uno sviluppo globale nella giovane età (6-12 anni) o una specializzazione precoce? Meglio, quindi, perseguire la “teoria delle 10.000 ore o dei 10 anni” che prevede una media di 3 ore di allenamento specifico al giorno per 9 anni e che dovrebbe portare a risultati di élite (uniti, chiaramente, anche ad altri fattori che favoriscono lo sviluppo di un futuro talento)? Ciò accade in molti settori giovanili di molteplici sport, sia in Italia che all’estero, con ingenti investimenti economici. O meglio una pratica sportiva che sviluppi tutte quelle capacità coordinative che creano, poi, un bagaglio motorio sul quale costruire un atleta di alto livello completo? Tale scelta ridurrebbe notevolmente tutta una serie di campionati e competizioni che coinvolgono migliaia di bambini ogni stagione.



Meglio sviluppare alcune abilità tecniche legate alla specificità di uno sport, spesso non sperimentando attività più divertenti e meno strutturate o andando incontro all’usura di alcune articolazioni, ad esempio, o è più favorevole creare un ambiente ricreativo, divertente e pluristimolante, ma non legato direttamente ad una prestazione?

E, infine, è bene chiedersi se sia un’esigenza dell’adulto richiedere al bambino di sviluppare una serie di life skills legate alla perseveranza e alla definizione di obiettivi, poi trasferibili anche in altri contesti di vita, o se sia meglio percorrere la strada che fornisca al bambino un ampio ventaglio di proposte motorie così da allenarlo a sviluppare maggiore competenza e fiducia in sé stesso?

Gli interrogativi sono molti, come sostanziosa è la letteratura scientifica a supporto. La domanda che rimane aperta, che è possibile continuare a scandagliare, che ne apre molteplici e che si rimanda a tutti coloro siano coinvolti nel mondo dello sport, dal basso verso l’alto, è questa: che tipo di cultura desideriamo trasmettere ai nostri bambini a livello motorio? Con quali modelli desideriamo vederli crescere?

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI