Qualche giorno fa sono stata intervistata per il giornalino della scuola. Tra le domande che mi hanno rivolto le studentesse di seconda media che sono venute a cercarmi (dotate di mascherina e di carta e penna per prendere appunti) ce ne è stata una, in particolare, che ha fatto breccia in me in questi giorni in cui si è tornato a citare (e ad attuare in tante scuole) la Didattica a distanza: mi hanno chiesto cosa abbia significato per me, quest’anno, ricominciare la scuola, rientrare nelle aule e risentire il suono della campanella, tornare a stare con gli alunni, fare lezione in presenza. È stata una gioia, ho risposto d’impeto, uno dei più begli inizi d’anno che siano mai accaduti nella mia vita.
Tornavo a casa e ripensavo a quella domanda, che aveva tirato fuori in me un giudizio così semplice e chiaro, limpido, immediato. Sono tante le fatiche che la scuola ha affrontato, prima nel periodo del lockdown e poi durante l’estate, ma sono tante le fatiche che la scuola sta affrontando ancora oggi, alle prese (tra l’altro) con un organico non ancora del tutto completo, con i tentativi più o meno riusciti di Didattica digitale integrata, con l’aggiornamento dei documenti, i piani di recupero degli apprendimenti, le scadenze burocratiche, l’acquisto di materiale e strumenti e la gestione non semplice dei casi di isolamento o quarantena. Da quell’intervista però non riesco a smettere di chiedermi da dove è sgorgato in me quel giudizio, di cosa è riempito e da cosa è sostenuto, perché senza esitazione io abbia risposto così a quelle ragazze che con le loro domande e i loro occhi pieni di vita mi hanno permesso di fermarmi a guardare.
Avevo terminato lo scorso anno scolastico e l’estate in un misto di entusiasmo e sospensione. Da una parte, la situazione inedita in cui tutti ci siamo trovati nella Dad aveva messo alla prova ed esaltato la mia creatività di insegnante, chiedendomi di trovare strade nuove in cui non erano coinvolte solo competenze “tecniche” o “digitali”, ma era implicata profondamente la mia consapevolezza didattica e pedagogica; dall’altra, sapevo benissimo che anche tutto ciò che era stato fatto online durante quel periodo avrebbe avuto bisogno di essere ripreso con pazienza: sebbene talvolta avessi ricevuto (sotto forma di compiti, domande) qualche feedback sull’apprendimento dei miei alunni, c’era tanto che mi risultava sommerso, indecifrabile, indefinito, non solo per quegli studenti che erano spariti e non si erano mai collegati, ma anche per chi – dispositivi e connessioni permettendo – era riuscito a seguire saltuariamente o costantemente il lavoro. Mi mancava, della didattica in presenza, quella cartina di tornasole che sono gli occhi dei miei alunni quando proponi loro un lavoro o gli offri un argomento, aprendo e percorrendo con loro le strade del conoscere.
È stato un ragazzino stesso della classe in cui insegno quest’anno a dirmi, ripassando alcuni argomenti di storia di quinta elementare, di non essere riuscito nei mesi della Dad ad imparare tutto e a farlo bene come avrebbe voluto. Credo che potrebbe dire anche lui, come io penso, che la didattica a distanza non può che essere (come è stata a partire da marzo e come è ora per le secondarie di secondo grado) una didattica di emergenza: è stata necessaria e l’abbiamo fatta meglio che potevamo, con impegno, spirito di iniziativa, inventiva, responsabilità e realismo. Torneremo a farla (come accade già adesso a tanti miei colleghi delle superiori), se serve per contenere il diffondersi del contagio, proprio in forza di queste due ultime parole che sono state le mie più grandi alleate nei momenti di difficoltà. Torneremo a reinventarci e continueremo a farlo se serve, per l’adesione al reale e in virtù della scintilla che accade in un rapporto educativo che ha bisogno di un adulto in equilibro tra “l’eccomi” e “il vai”, come ha recentemente affermato lo psicanalista Massimo Recalcati in un dialogo con Julián Carrón dal titolo “Il desiderio si riaccende in un luogo”: un adulto che al tempo stesso offre al ragazzo la sua presenza ma lo invita all’esperienza della libertà, come il padre della parabola del figliol prodigo.
Lo abbiamo già visto in queste settimane, quello che l’essere insieme in classe riattiva in noi e negli studenti. È bastata un’ora di coro, svolta con tutte le misure di sicurezza necessarie e ripensata nelle modalità, a far percepire alla collega che me lo ha raccontato che ciò che ha costruito in questi anni con gli studenti era rimasto in loro, come se quell’ora sola avesse spazzato via in un attimo i lunghi mesi di interruzione. È bastato anche a me, nelle prime settimane di scuola, iniziare il lavoro di italiano dell’anno con La storia infinita: un film di oltre trent’anni fa, ma che mantiene la forza di attrarre e di far spalancare gli occhi riconoscendosi nelle storie di Bastian e Atreyu.
Ero stata a scuola durante l’estate, e per improrogabili e giustificate esigenze lavorative c’ero stata anche nel mese di maggio. Le aule erano vuote, la scuola era rimasta come l’ultimo giorno in cui l’avevamo lasciata. La campanella suonava, scandendo le ore, ma per il resto c’era silenzio. Il 14 settembre quelle aule si sarebbero riempite di voci e di tutta la vita che si portano dietro: era come se le attendessero, come le attendevo io, e quando le ho riviste piene nei primi giorni di scuola sono stata contenta, perché ha trovato riposo in me la fatica fatta durante l’estate per predisporre il rientro insieme ai colleghi del mio gruppo di lavoro e allo staff della scuola e mi è sembrata più chiara la natura e la vocazione della scuola: un luogo pieno e vivace dove si possano incontrare uomini e donne impegnati con la propria vita e dove è possibile sentirsi domandare, da due studentesse alle prese con un articolo per il giornalino, “cosa ha voluto dire per lei ricominciare la scuola?”. Una domanda che ha costretto me a riguardare il senso del mio lavoro per offrirlo anche a loro.