L’esame conclusivo degli studi secondari voluto da Gentile rimase immutato, o quasi, per quarantacinque anni; quello voluto da Sullo, che ne prese il posto, per quasi trenta. Nei venti anni successivi fino ad oggi, ormai non si contano più le modifiche apportate al meccanismo. Si può dire che non vi sia stato ministro che non abbia voluto lasciare in qualche modo il suo segno.
La sessione 2021, come del resto quella 2020, si distinguono ulteriormente per aver dovuto fare i conti con l’emergenza sanitaria, che ha portato fra l’altro ad eliminare le prove scritte. Sono in molti ormai a chiedersi quale senso abbia, e se ne abbia ancora uno, una prova così palesemente costruita per rimuovere ogni sostanziale rischio di insuccesso per i candidati. Se non fosse per l’obbligo costituzionale, ancorché svuotato di contenuto sostanziale, si sarebbe probabilmente colta l’occasione della pandemia per eliminarla.
Di fatto, il vero problema che sta dietro alle continue modifiche è che nessuno ha più le idee chiare sulla finalità dell’esame conclusivo: e quindi ci si concentra sui dettagli operativi, senza interrogarsi preliminarmente sul senso della prova, al di là dell’abusata formula del “rito di passaggio” all’età adulta. Funzione, sia detto per inciso, che potrebbe essere meglio svolta con altri strumenti: giusto per citarne uno, l’obbligo di un servizio civile di uno-due mesi dopo la conclusione del quinto anno.
Il problema si pone non solo in Italia: ma altrove, forse, ci si pone con maggiore chiarezza di fronte a quello che è il dilemma centrale di una prova conclusiva degli studi secondari. Detto in termini semplici: si tratta di una prova certificativa di un percorso che si chiude, o di una prova predittiva rispetto ai percorsi ulteriori? Serve insomma per accertare quel che si è fatto o per circoscrivere l’ambito di quel che si potrà fare dopo, alla luce delle competenze dimostrate? O ancora: deve illuminare i caratteri distintivi della personalità o rivelare specifiche attitudini in particolari ambiti?
Da noi, questa ambivalenza non è sostanzialmente risolta: e lo provano gli elementi strutturali dell’esame. Se si volesse privilegiare la certificazione delle singole competenze, queste si dovrebbero valutare separatamente, con voti/giudizi analitici: noi invece abbiamo un voto finale unico, del quale è perfino vietato evidenziare gli elementi costitutivi. Abbiamo un credito scolastico che pesa per il 60 per cento del punteggio massimo teorico: il che, implicitamente, toglie peso e rilevanza al momento dell’esame. Tutti i singoli elementi del colloquio – minuziosamente descritti all’art. 18 dell’ordinanza ministeriale – sono noti in dettaglio con largo anticipo e la commissione (peraltro composta dai soli docenti di classe) non ha margini sostanziali per introdurre contenuti non preventivati.
Del resto, che l’esame abbia ormai smarrito ogni sostanziale valenza certificativa lo prova il peso che gli viene attribuito in ambito sociale. I potenziali datori di lavoro svolgono colloqui o altri accertamenti prima di un’eventuale assunzione. L’università, in molti casi, effettua propri test di ingresso. Per accedere agli impieghi pubblici vi sono prove di esame. Per svolgere determinate professioni (geometra, elettrotecnico fra le altre), serve un esame specifico di abilitazione. Di fatto, il diploma di studi secondari funziona ormai quasi solo come una “chiave di esclusione”, più che come una “chiave di accesso”: esclude cioè chi non ne è in possesso, ma da solo non conferisce sostanziali diritti a chi lo detiene.
È proprio inevitabile che questo accada? Non si può pensare ad un meccanismo diverso e più trasparente? Le soluzioni ci sarebbero e basta guardarsi attorno per rendersene conto.
Ci sono paesi, come la Francia, in cui fino a qualche anno fa l’esame era su tutte le materie dell’ultimo anno: ma il voto era accompagnato da un coefficiente di ponderazione che privilegiava fortemente le materie “di indirizzo” rispetto alle altre. L’esame si superava con un voto finale risultante dalla media ponderata: e quindi si poteva conseguire il diploma pur non avendo riportato la sufficienza su una o più delle materie a bassa ponderazione. I singoli voti restavano tutti visibili. Così facendo, si rendeva trasparente il livello di preparazione e di competenza del candidato ed al tempo stesso si affidava il risultato alle materie più coerenti e funzionali rispetto al profilo di uscita.
Recentemente, il meccanismo è stato modificato e l’esame si svolge in due momenti distinti: alla fine del penultimo anno per le materie generali ed alla fine dell’ultimo per quelle di indirizzo.
In Gran Bretagna vi è un primo esame conclusivo degli studi secondari a sedici anni, in cui si sostengono tutte le materie del curricolo nazionale. Questo esame certifica il completamento dell’obbligo. Chi decide di proseguire, studia approfonditamente nei due anni successivi solo tre o quattro materie, a scelta del candidato su un certo numero di possibilità. Su queste sostiene un secondo esame a diciotto anni. Questo secondo esame serve a circoscrivere gli ambiti successivi, di studio o di lavoro, che devono ovviamente risultare coerenti con la scelta fatta e con gli esiti finali.
Volendo trarre ispirazione da questi modelli, non sarebbe difficile immaginare anche da noi un esame conclusivo in due tempi. In un primo tempo – diciamo a fine aprile – vi sarebbe uno scrutinio interno del consiglio di classe, con modalità analoghe a quelle degli scrutini finali degli anni precedenti. In caso positivo, si può andare all’esame: altrimenti si ripete l’anno.
L’esame, a metà giugno, verterebbe solo su tre materie coerenti con l’indirizzo, eventualmente da scegliere su una rosa di opzioni. La commissione sarebbe esterna ed i voti analitici, per singola disciplina. Nessun credito scolastico e nessuna promozione complessiva: il che lascerebbe aperta la possibilità di un esito positivo solo parziale, con possibilità di ripetere, o integrare, l’anno successivo le materie che non si fossero superate o quelle che si volessero aggiungere al proprio profilo (senza dover frequentare nuovamente il quinto anno).
La prima fase avrebbe la funzione di certificare il completamento degli studi secondari: sarebbe quindi un “esame di chiusura”. La seconda fornirebbe la chiave di accesso ad uno o più percorsi coerenti con le prove sostenute, rispetto alle quali le singole competenze possedute risulterebbero maggiormente evidenti e dimostrabili. L’intervallo fra le due fasi servirebbe per rifinire la preparazione: le scuole farebbero corsi mirati e gli studenti si concentrerebbero solo sulle materie da sostenere.
Questa ipotesi comporterebbe solo variazioni relativamente “minori” all’attuale assetto dei corsi secondari e sarebbe perciò praticabile in tempi brevi.
Volendo far prova di maggiore coraggio, si potrebbe pensare ad un intervento più radicale: ridurre il corso di studi a quattro anni, con scrutinio finale su tutte le materie (magari con presidente esterno, per conferire il sigillo di esame di Stato). Il quinto anno sarebbe facoltativo, solo per coloro che vogliono proseguire gli studi e sarebbe totalmente dedicato a non più di quattro materie di indirizzo, anche qui eventualmente con scelta fra una rosa di opzioni. Al termine, esame con commissari esterni, voti singoli e possibilità di esito positivo parziale. Il “titolo di studio” sarebbe quello del quarto anno, mentre il quinto sarebbe un anno-ponte per chi vuole andare oltre. Con evidenti vantaggi per la trasparenza delle competenze e per la profondità della preparazione conseguita in vista del lavoro o degli studi ulteriori.
Si tratta, come è ovvio, solo di proposte generali, sulle quali si potrebbe lavorare: ma siamo convinti che la chiave per uscire dall’attuale ambiguità consista nel separare tangibilmente una prova “di uscita”, cioè conclusiva del ciclo a tutti i fini di legge, da una prova “di ingresso”, cioè di certificazione del possesso di competenze coerenti con i percorsi che seguiranno. Evitando di mescolare le finalità, sarebbe più facile specializzare gli strumenti e dare un senso riconoscibile ad un passaggio che, ora come ora, non sembra averne alcuno.
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