La morte di Luigi Berlinguer ricopre un significato simbolico agli occhi di chi scrive, che faceva la preside di una scuola superiore nel milanese negli anni 90 e che apparteneva, come quadro di livello medio-basso, al suo mondo politico-ideologico.

Forse si può leggere la sua figura ed il suo operato come la punta più avanzata cui arrivò un orientamento di progressismo riformista nel campo della scuola per poi, dopo il suo dimissionamento e la sostituzione con il più innocuo De Mauro, registrare un arresto ed un arretramento, evidente soprattutto oggi.



I tempi erano diversi. Si era alla fine di quel forte investimento sull’istruzione e l’educazione che ha caratterizzato il secondo dopoguerra in tutto il mondo occidentale. Era già abbastanza evidente all’inizio del secolo che le utopie basate sul mutamento radicale delle strutture della società non stavano dando i frutti sperati e nell’educazione erano stati investite le residue speranze di palingenesi umana. Ciò avvenne anche nel nostro Paese, sulla scorta della cultura prevalente della nostra tradizione, donde, accanto allo sviluppo quantitativo dell’istruzione di massa partito dagli inizi degli anni 70, il dilagare universalistico di una cultura umanistica fin lì patrimonio di pochi.



La fine dell’egemonia democristiana, di cui fu simbolo – ad oggi da molti rimpianta – Franca Falcucci, era già iniziata con il ministero di Giancarlo Lombardi, uomo di Confindustria,  che aveva introdotto nella scuola il concetto della qualità e la spinta all’efficienza, in un contesto di trionfo ideologico liberista.

Luigi Berlinguer ne portò avanti la spinta innovativa, declinandola su valori e temi più consentanei a quelli della sinistra. Rappresentò per certi versi le spinte di un periodo di grande attivismo nel mondo della scuola, non solo nella parte di sinistra a lui più vicina – maggioritaria come dappertutto in Occidente – ma anche da parte di componenti diverse, prima di tutto in Italia dal mondo cattolico.



Generalmente si parla a questo proposito in primo luogo della norma sull’autonomia. Ma forse è giunto il momento di dire che in realtà questa norma – che da parte del ministro Berlinguer aveva un significato più profondo – ha inciso solo relativamente sulla realtà della scuola italiana. Da una parte perché i collegi docenti non hanno mai avuto una spinta entusiasta a variare le strutture temporali organizzative (periodizzazioni intermedie, articolazione delle classi e delle attività) che pure all’inizio alcune scuole tentarono. Dall’altra perché in realtà, rispetto ai contenuti, nelle nostre scuole c’è sempre stata un’ampia libertà di variazione per chi non voglia stare attaccato all’indice del libro di testo come ad un’àncora di salvezza. Una volta si diceva che le uniche vere forche caudine erano la seconda prova dell’esame di maturità, ma adesso… Qualche variazione nei calendari, molte incombenze amministrative e responsabilità dei dirigenti scolastici a scarico di altri organismi. Mancando serie possibilità di gestione autonome del personale, il tutto sembra più faticoso che realmente incidente.

Invece. Dal punto di vista della struttura del sistema formativo, Luigi Berlinguer cercò di unificare scuola elementare e scuola media creando il famoso e famigerato 7+5 (scuola elementare e media unificate + scuola superiore). Questo avrebbe permesso il completamento della scuola superiore a 18 anni, come in molti Paesi occidentali, ed un orientamento del primo ciclo più fortemente legato all’alfabetizzazione di base e pertanto anche alla equità.

In quella occasione – sembra impossibile oggi – aveva anche l’appoggio delle eccellenti competenze tecniche dell’allora segretario della Cgil Scuola Emanuele Barbieri, che aveva a lungo studiato le modalità per evitare la famigerata “onda anomala” che necessariamente si sarebbe creata. Ma vi fu una strenua battaglia contraria (e non solo dell’opposizione di Forza Italia e Lega) di tutti coloro che vi vedevano non solo una banalizzazione elementarizzante, ma anche un vulnus irreparabile alla “alta” cultura della popolazione italiana nella diminuzione di un anno di scolarità. E naturalmente nella diminuzione delle cattedre: la lezione è probabilmente servita al ministro Valditara quando, nel proporre il 4+2 nella ristrutturazione dell’istruzione tecnico-professionale secondaria e superiore, ha precisato “ad organico invariato”.

Altro coraggioso punto di riforma, questo portato a compimento, fu il riconoscimento con la legge n. 632/2 del 2000 della funzione pubblica della scuola “privata” che volesse accreditarsi diventando “paritaria” . La legge è stata ed è molto contrastata in linea di principio nel suo stesso campo, ma è stata poi soprattutto successivamente molto ostacolata prima di tutto dal punto di vista dei finanziamenti, come è venuto in grande evidenza negli ultimi periodi di minore disponibilità economica da parte delle famiglie italiane.

Ma, come ricordano gli ormai residui cultori della materia, il maggior coraggio che nel 2000 costò il posto a Berlinguer fu il tentativo di rompere l’unicità della funzione docente attraverso il famigerato “concorsone”. Che vide in un primo tempo il giusto appoggio della Cgil (forse è ancora vivo chi ricorda che Proteo, sua organizzazione di formazione, aveva organizzato corsi appunto di preparazione) e poi il suo ritiro, sotto la spinta di manifestazioni di piazza radicalizzate, nel silenzio degli altri insegnanti.

Il pretesto erano le modalità potenzialmente non trasparenti e clientelari del concorso (cosa rarissima, come è noto, nel nostro Paese!). Del resto i decenni successivi hanno dimostrato che come fai, sbagli: bloccato a suo tempo il ddl Aprea che prevedeva una carriera legata a ruoli aggiuntivi, osteggiata la “Buona Scuola” che aveva preso l’altra impervia strada della valutazione dell’insegnamento in classe. Una professione senza progressione non attira moltissimi, oggi, e forse principalmente coloro che – del tutto legittimamente peraltro – prediligono la pace dei sensi.

Per certi versi il ministero Moratti che si insediò con la vittoria del centrodestra del 2001 ne continuò la strada innovatrice, anche se su temi diversi, ma non necessariamente antitetici, come vollero sostenere letture successive.

La creazione di Invalsi, cioè di uno strumento di misurazione degli esiti con evidente scopo di equità, era stata preceduta da un tentativo di Berlinguer di cambiamento del CEDE fondato dal socialista Visalberghi. Eminente pedagogista di respiro non provinciale, che era stato pienamente partecipe degli sviluppi internazionali delle valutazioni standardizzate internazionali IEA, matrice di PISA. Il CEDE però si attestava su posizioni di indagine meramente qualitativa, negando interesse e validità scientifica a tale tipo di valutazioni. Ancora oggi del resto quel mondo accademico di riferimento sostiene di fatto posizioni simili, anche se con sempre meno forza ed autorevolezza. Berlinguer diede inizio ad un cambiamento, per il quale gli mancarono le forze, all’interno di quello che non poteva non essere il suo mondo di riferimento.

Mondo di riferimento che aveva ed ancor più oggi ha in gran sospetto la formazione per il lavoro, e pertanto i tentativi, che pure ci furono, di Luigi Berlinguer di aprire un discorso in questo senso furono faticosi, anche se non opposti a quelli che la legge 52 cercò di fondare con la nascita del sistema di Istruzione e Formazione Professionale e la valorizzazione di questo tipo di formazione. La pesante influenza idealistico-gentiliana sulla classe intellettuale italiana non si è ancora smaltita, nonostante la tradizione del movimento socialista europeo di matrice marxista avesse sempre dato importanza alla cultura del lavoro non solo in chiave di emancipazione, ma soprattutto come strumento di sviluppo delle forze produttive.

Ma Luigi Berlinguer aveva fatto già tanto e lo aveva anche politicamente pagato. Dopo di lui la linea della sinistra sulla scuola si è bloccata o ha subito una grave regressione. Onore al merito.

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