L’estate è dedicata spesso al riordino dei testi accumulati negli anni, e questo consente talvolta il recupero di  considerazioni preziose: è il caso di un testo di Michele Pellerey del 2015 che mi era sfuggito, e riprende tra altri un rapporto dell’Ocse del 2012 sull’uso delle tecnologie digitali per l’apprendimento. Forse una lettura del saggio in questione, e dei testi che cita, avrebbe potuto supportare l’utilizzo della Dad, ed evitare alcuni errori.



Ad esempio, sarebbe stato importante sapere che nelle sperimentazioni “si è constatata una certa riluttanza degli studenti ad utilizzare nei loro impegni scolastici gli stessi strumenti comunicativi che quotidianamente valorizzano nell’essere connessi con i loro compagni”. I ragazzi vivono immersi in un flusso di comunicazione continuo, in cui quello che conta per promuovere l’autostima non è il giudizio dell’adulto, ma l’approvazione dei pari, il mitico like.



La finalizzazione dei contenuti scolastici (l’apprendimento) è profondamene diversa da quella dell’esperienza quotidiana, per cui c’è un salto logico ed esperienziale nell’utilizzare strumenti famigliari, tablet e telefonini, per conseguire un altro scopo, cioè “il primo e più assoluto obiettivo formativo” che “è quello di aiutare ciascuno a sviluppare la capacità fondamentale di progettare, gestire e valutare se stesso”.

Per sofisticati che siano gli strumenti tecnologici, non si può prescindere dalla necessità che l’uso sia “guidato da esseri umani” e abbia i ritmi di un apprendimento che preveda momenti di lentezza e profondità necessari alle sintesi cognitive, una sorta di “riposo digitale”. L’eccessivo ricorso alla comunicazione su schermo provoca distorsioni nelle relazioni: ho appreso che si parla di phubbing, termine che ignoravo, per indicare chi privilegia la comunicazione digitale su quella umana, per esempio rispondendo al telefono mentre sta parlando con persone in presenza, esperienza che tutti abbiamo fatto, o subìto.



La progettazione didattica deve prevedere un’integrazione equilibrata  fra “cultura del libro” e “cultura dello schermo”, con una valutazione attenta di tutti gli elementi presenti nel contesto di apprendimento. L’interlocutore non è lo schermo, ma l’insegnante, che è il responsabile dei contenuti della comunicazione e dei risultati raggiunti. E questo serve anche come primo commento ai pesanti  risultati negativi dei test Invalsi.

Nella didattica a distanza bisogna superare la tentazione di privilegiare il “pensiero rapido”, contrapposto al “pensiero lento”, che devono invece integrarsi: una delle opere più note dello psicologo Daniel Kahneman, che ha vinto nel 2002 il premio Nobel per l’economia, è intitolata proprio Thinking fast and slow, tradotto come Pensieri lenti e veloci. Noto, per inciso, l’ibridazione per cui ben tre economisti (oltre a Kahneman, Becker e Heckman) hanno vinto il Nobel con studi che non sono strettamente economici, sintomo dell’interdisciplinarità, o forse si dovrebbe parlare di pre-disciplinarità, della società contemporanea.

Per una corretta progettazione non giova il fatto che gli insegnanti, più che affidarsi agli esiti delle ricerche, o alle esperienze in atto, tendano a dividersi pregiudizialmente in schieramenti acritici, che vanno dai “catastrofisti” ai “missionari” agli “scettici”. Le potenzialità di ogni nuova tecnologia vanno invece sistematicamente confrontate con le finalità educative della scuola, e del singolo insegnante, che non dovrebbero essere limitate ai risultati di apprendimento, ma estendersi ad un insieme più complesso di competenze. In particolare, se continuiamo a ritenere, come spero, che il pensiero critico sia una requisito fondamentale per la partecipazione, la scuola dovrebbe anche insegnare ai ragazzi a difendersi dalle fake news. Ma forse siamo rimasti agli albori della televisione, quando persone apparentemente ragionevoli asserivano con convinzione di fronte alle peggiori sciocchezze: “È vero, lo ha detto la televisione”. Al tempo, perlomeno, le conseguenze di questo ingenuo fideismo erano molto meno catastrofiche di quelle attuali.

Per tornare alla didattica a distanza, quello che appare chiaro dopo un anno e mezzo di sperimentazioni più o meno valide e rigorose, è che è arrivata per restare, anche perché io ritengo che l’emergenza abbia solo accelerato i tempi di un cambiamento che era già presente, forse più tra i ragazzi che tra gli insegnanti. Per fare un ennesimo esempio famigliare, in attesa che i miei mi disconoscano, dirò che mi ha divertito sapere che mia nipote (terza liceo scientifico) ha scoperto in biblioteca, facendo i compiti delle vacanze, anziché ricorrere alla rete,  i pregi del dizionario “cartaceo” di latino, che probabilmente la sua professoressa usa normalmente.

La condizione per un utilizzo efficace della Dad, a quanto suggeriscono le sperimentazioni più positive, è allora quello dell’ibridazione, non sempre possibile in tempi di pandemia e sotto la pressione dell’urgenza, ma da considerare necessaria appena ristabilita una certa normalità, con una didattica che dovrà valorizzare in modo stabile i due poli, in presenza e a distanza, rispettandone le possibilità e integrandoli al meglio, con una proposta per cui si usa il termine inglese di blended. Quando io ero giovane, nel giurassico, il termine indicava un whisky ottenuto miscelando i distillati di diversi cereali: temo però che questa interpretazione, pur filologicamente corretta, non possa essere accettata nemmeno nella secondaria di secondo grado…   

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