Un educatore filosofo e uno psicanalista si incontrano nell’ambito di un concorso di filosofia per studenti, le Romanae Disputationes. Entrambi maneggiano, per mestiere e con strumenti differenti – l’uno a scuola, l’altro in analisi – la stessa incandescente materia: l’adolescenza. Nasce da qui l’idea di fondere le due prospettive in un libro a quattro mani, Bocche di leone. L’esperienza dell’adolescenza tra scuola, filosofia e psicoanalisi (Mimesis, 2024), a cura di Marco Ferrari e Andrea Panìco, con l’utile prefazione di Aldo Raoul Becce.



Il testo non ha la forma di un dialogo, ma di tanti microsaggi che però appaiono effettivamente in dialogo tra loro, per come si arricchiscono e chiariscono a vicenda. Il titolo intende esprimere la fame che l’adolescenza stessa è, come “spinta vorace verso la vita, fioritura del desiderio, dell’intelligenza e della libertà”. Non una fame qualsiasi, insomma. “È evidente a tutti che i surrogati di felicità che il sistema offre oggi non bastano per una autentica bocca di leone” scrive infatti Ferrari. “Fame sì, ma di qualcosa di buono” aggiunge più avanti Panìco, riecheggiando un noto spot pubblicitario degli anni 90. E allora, che cos’è l’adolescenza? O meglio, cosa impariamo di lei dalla lettura del libro?



Non si può certo dire che gli autori abbiano la pretesa di spiegarla, o, ancor meno, di definirla. Al contrario, capitolo dopo capitolo si ha l’impressione che provino continuamente a chiarirla, a riscriverla, a reinventarla. Pare quasi che la scrittura stessa sia, per loro, strumento e forma della ricerca. Accade qualcosa di simile al lettore, che leggendo accoglie informazioni, chiarisce esperienze ma soprattutto si accende, incuriosisce e sorprende.

Piccola parentesi personale. Chi scrive, anch’egli insegnante, ha trascorso parte del tempo di lettura a ricopiare sullo smartphone parti del testo e citazioni. È accaduto per il desiderio, che man mano nasceva, di inviarli a determinati studenti e colleghi, una per ciascuno, perché richiamavano e soprattutto rischiaravano dialoghi già avvenuti, situazioni e momenti di vita, soprattutto di scuola.



E infatti, durante la lettura, la domanda “che cos’è l’adolescenza” si trasforma in un’altra, meno pretenziosa ma in fondo più interessante: “cosa accade quando la incontri, da adulto”? La risposta (sempre parziale, come già detto) è intrisa di storie, in particolare nei capitoli di Ferrari, che racconta vicende concrete di ragazzi incontrati a scuola. Come quella di Andrea, che di scuola non voleva più sentir parlare e sembrava non voler reagire a nessuno stimolo e a nessuna proposta (è il dramma quotidiano di tanti insegnanti, tutti i giorni, in tutte le scuole). Cosa fare di fronte a questo rifiuto? Il problema diventa occasione per ribaltare la prospettiva, portare il dramma su di sé. “Lui era così – scrive Ferrari –, ma io, come lo trattavo nelle mie ore di lezione? Cosa comunicavo nei miei gesti quotidiani? Avevo a cuore Andrea?”. Il ribaltamento di prospettiva diventa una forma di ascolto nuovo: “Lo ascoltavo di quell’ascolto che non mira a parlare dopo di lui, ma ad accogliere”.

Così per Diego, che le prova davvero tutte per farsi bocciare, eppure i suoi docenti non lo assecondano in questo istinto, gli ridanno un credito che credeva di non meritare più. Da quell’eccesso di gratuità rinasce, o, come scrive Ferrari, fiorisce. A proposito di “merito”, uno dei pregi del libro è quello di “sciogliere” in semplicità concetti su cui ci si impantana spesso e male nel mondo della scuola, come quest’ultimo, finito persino nel nome del ministero. “Visibilità e successo sono il contrario del merito – scrive Ferrari con limpidezza –, inteso come partecipazione a qualcosa di più grande in cui si radica il valore dell’azione”.

E se per Diego il “trattenere” è l’atto di fiducia, per qualcun altro può accadere il contrario, perché educazione non è rigidità o uniformità, ma disponibilità al cambio di prospettiva. E così anche il lasciare andare diventa gesto di stima, come quando il padre di Michele (nome di fantasia) comprende che per salvare il figlio c’è bisogno di allontanarlo dalla città e dalle cattive compagnie che lo hanno avvicinato alla droga. Chi aveva trattenuto Diego ora è pronto a lasciar partire Michele, che perde l’anno di scuola, ma salva la vita.

Non ci sono schemi e confini, anche perché il proprio dell’adolescenza è abbatterli, uccidere l’infante che si era (Becce in prefazione), separarsi come atto creativo (Panìco).  L’adolescenza, la vita stessa è allora continua tensione verso qualcosa che – ritorniamo alla vecchia pubblicità – non è appena fame, ma voglia di qualcosa di buono. Ma che cos’è questo qualcosa di buono? Scrive Panìco: “Ecco, questo qualcosa di buono è un significante che non si trova in nessun vocabolario, tantomeno al supermercato. È ciò che avanza, che resta, che manca, è lo scarto della catena significante, ciò non c’è: per questo bisogna inventarlo”.

Sta parlando di tante cose insieme, ma soprattutto di una, che in un certo senso le raccoglie tutte, l’Amore. “Come si innamorano, d’altronde, due persone? Parlando. Ma di-co-sa? Boh. Eccoci punto a capo. Se si prendono le cose alla lettera, diventa d’altra parte molto semplice; come dice Dario Brunori, ‘che cosa vuoi che dica, di cosa vuoi che parli?’. Ebbene, non lo si sa, non lo si può sapere, questa è l’evidenza: perché quella parola non c’è. È l’insondabile quanto precisa casualità dell’incontro a determinarne l’esistenza”. È una riflessione, come tante del libro, che non si ha l’impressione di poter subito “catturare” in termini di comprensione, ma ha già il potere di schiarire qualcosa. E di sicuro genera la voglia di scriverla, la propria vita, di scrivere e inventare tanti nuovi rapporti. Già da domani, a scuola e ovunque. Buona lettura.

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