Un mio carissimo amico, collega delle scuole medie inferiori, un giorno mi disse: “vedi, alla fine, gira e rigira, il problema della scuola sono gli insegnanti”. Chiaramente c’era dell’ironia: avvezzi, come eravamo, alle usuali litanie da aula professori di lamentele sul ministero, sul personale Ata, sulle famiglie, scherzando ci dicevamo che il punto forte del corpo docente medio non è proprio l’autocritica.



Eppure, cercando di prendere un po’ sul serio quelle frasi buttate lì in una banale serata in compagnia, mi sono reso conto della reale, quasi ontologica, difficoltà degli insegnanti (me compreso, non lo nego) a collaborare tra di loro. Propiniamo spesso agli studenti lavori di gruppo, per stimolare la loro capacità di pensiero cooperativo; cerchiamo il più possibile di smorzare l’afflato umano della competizione per esaltare la socialità (lo diceva Aristotele, non certo uno qualunque, che l’uomo è animale sociale, in fondo). Sovente ci troviamo però nella condizione di predicare bene e razzolare malissimo. Non tutte le scuole – spero – sono così, ma ho raccolto, da vicino e di recente, un vasto quanto delirante campionario della maestria con cui la regola del sospetto diventa compagna di vita quotidiana dei professori nei loro rapporti con i colleghi.



Succede, per esempio, che l’identificazione ideologica o religiosa possa bastare per negare aprioristicamente la possibilità di vagliare genuinamente la bontà di una proposta. Se il tal professore di filosofia è credente e propone un incontro di spiegazione del conflitto in Palestina alla luce dei recenti fatti di cronaca, allora “Grande Giove! La nostra è una scuola pubblica, gli alunni non devono essere ammaestrati ad una visione del mondo univoca!”.  Che la nostra sia una scuola pubblica (di certo) laica (sì, ma non laicista) e libera (iniziano a venirmi dei dubbi) non lo metto in discussione, ma davvero si deve instaurare il meccanismo della gogna ancor prima di proferir parola? O la gogna è per l’appartenenza in sé? Se la collega di Arte è Rsu per un noto sindacato di sinistra, non credo che voglia automaticamente dire che faccia cantare bandiera rossa all’inizio di ogni assemblea sindacale o peggio, come diceva una certa cattiva propaganda degli anni cinquanta, si nutra di teneri e innocenti bambini per passatempo ricreativo.



Intendiamoci, a volte accade davvero che il carico ideologico sia smaccatamente evidente e finanche fastidioso. Ma le persone si dovrebbero valutare dal loro fare, non secondo un aprioristico schematismo. In più, aggiungo che educare è mestiere (anzi, vocazione, alla faccia di coloro a cui non piace utilizzare tale termine) complicato e forse l’ossessione della neutralità a tutti i costi finirà per farci censurare il 90% del nostro patrimonio culturale, per timore di offendere.

Eppure funziona così. Ragioniamo per etichette, per schemi pseudo-ideologici. Ci crediamo davvero? Quasi lo spero, per quanto sarebbe comunque terribile, ma temo che la realtà sia ancora peggiore. Affibbiamo l’appartenenza a fantomatiche sette o occulti gruppi di potere probabilmente al solo scopo di rasserenare la nostra coscienza e giustificare un – molto più ferale – desiderio di essere “signori e padroni” nel momento in cui varchiamo l’aula. Lavorare davvero insieme richiede sforzo e sacrificio: occorre mettersi in discussione, reinventarsi, a volte adattarsi e mediare. Esattamente come succede in una classe di studenti. E pochi tra noi sono disposti sinceramente a farlo.

Mi sorprendo a pensare, tra l’amareggiato e il beffardo, che nella classe di cui sono attualmente coordinatore, se costringessero il corpo docente a stare cinque ore al giorno per sei giorni alla settimana nella stessa stanza, dopo un mese (e sono generoso) si rischierebbe seriamente la carneficina. Siamo una società che non dialoga, in cui i professori per primi odiano dialogare tra loro e che, somma ipocrisia, impone il dialogo come un valore teorico (non insegnandolo mai davvero) cui i ragazzi dovrebbero aderire. Forse è vero che il problema della scuola sono gli insegnanti. Spero che prima o poi si rendano conto di esserne anche la soluzione.

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