Un genitore, durante un colloquio di fine anno scolastico, mi ha fatto notare il suo stupore nel vedere la figlia liceale iniziare a porsi con un giudizio personale in una questione famigliare, tanto da tenergli testa. “Mia figlia non è solita – diceva – formulare pareri, perché ritiene offensivo nei confronti degli altri proporre la sua posizione rispetto a eventi o ad argomenti di discussione. Evidentemente, questo suo cambiamento è frutto dell’educazione della scuola che sta frequentando, che la abitua a dire ‘io’ in un mondo in cui in nome del ‘politicamente corretto’ si rinuncia ad argomentare”.
Mi ha impressionato notare che in questi anni ho visto diversi studenti rinunciare a parlare per timore di esporsi, durante le lezioni, ma anche in famiglia o con gli amici. Come è possibile, nell’era in cui i mezzi di comunicazione hanno raggiunto uno sviluppo inedito, che la comunicazione sia così penalizzata, rattrappita, ostacolata, che sia così difficile dialogare, parlarsi, argomentare tra amici, colleghi, famigliari, popoli? Evidentemente non è una questione di strumenti, c’è qualcosa di molto più profondo che va indagato e compreso.
Alla ricerca di risposte convincenti sulle problematiche della comunicazione mi sono imbattuta in due preziose letture. La prima è un saggio di Adrien Candiard, Tolleranza? Meglio il dialogo (Libreria Editrice Vaticana, 2022), nel quale l’autore, frate domenicano e islamista residente al Cairo, se da una parte ridimensiona dal punto di vista storico il mito di al-Andalus, da molti evocato come età dell’oro della coesistenza pacifica tra cristiani, musulmani, ebrei nella Spagna medievale, dall’altra ne evidenza il senso profondo e tuttora auspicabile: l’Andalusia “fu anzitutto una terra di dialogo, spesso aspro, certo, talvolta violento, ma anche straordinariamente ricco. E l’orizzonte di questo dialogo, che prese la forma di dispute, di polemiche o di semplici conversazioni, è precisamente ciò a cui invece abbiamo creduto bene rinunciare: l’instancabile ed esigente ricerca della verità” (p. 27).
Candiard passa poi in rassegna le idee di alcuni filosofi che hanno progressivamente condotto il pensiero occidentale a distinguere tra le verità scientificamente dimostrabili e le verità di fede, a cui si crede irrazionalmente. E osserva come l’indebolimento delle verità religiose abbia ottenuto effetti secondari indesiderati, tra i quali la rinuncia al dialogo, l’indifferenza e una acritica tolleranza quali uniche soluzioni prospettate per evitare i conflitti che hanno dilaniato l’Europa in epoca moderna.
È ormai evidente che tale deriva, riguardando il dialogo interreligioso, ha influenzato anche il dibattito sui grandi temi della vita, che peraltro non smettono di provocare i nostri giovani e di farli soffrire oltre misura se non trovano persone, adulti e compagni, che abbiano la libertà di definirli nei loro confini, trattarli adeguatamente e approfondirli, prendendo sul serio la loro sete di capire. In tal senso la scuola può e deve essere un luogo di dibattito libero, rispettoso di ogni singola persona, ma al contempo capace di una costruzione convincente e corretta delle idee attraverso l’argomentazione. Scrive Candiard: “Non posso esigere che le mie opinioni vengano rispettate se ritenute erronee (libero io di dimostrare il contrario); posso aspettarmi il rispetto incondizionato per la mia persona, non per le mie idee” (p. 67).
Condizione perché tale libero dibattito sia possibile è sicuramente la convinzione che sia ragionevole ipotizzare l’esistenza della verità in ogni ambito di conoscenza e che insieme la si possa ricercare in modo “instancabile ed esigente”, ma non solo.
Nella seconda pregevole lettura, il romanzo di Colum McCann, Apeirogon (Feltrinelli, 2022), che narra l’incontro tra un israeliano e un palestinese, accomunati dall’aver perso entrambi una figlia in due attentati a distanza di dieci anni l’uno dall’altro, e la loro instancabile testimonianza al servizio della pace, emerge in modo drammatico e commovente un altro aspetto fondamentale per imparare a comunicare, a parlarsi, a dialogare. Così racconta Rami, l’israeliano, quando partecipa a un raduno di Parents circle, l’associazione di parenti in lutto che, pur avendo perso loro cari in attentati, vogliono la pace: “Io ero rimasto chiuso in una specie di bara. E adesso quella visione mi sollevava il coperchio dagli occhi. Il mio dolore e il suo dolore: lo stesso dolore. Entrai per conoscere quella gente ed eccoli lì che mi stringevano la mano, mi abbracciavano, piangevano insieme a me. Ne restai così colpito, così profondamente scosso. Come se una martellata mi avesse aperto in due la testa. Un’organizzazione di familiari in lutto. Israeliani e palestinesi, ebrei, cristiani, musulmani, atei, c’era davvero di tutto. Insieme. Nella stessa stanza. A condividere il proprio cordoglio” (pp. 256-257).
Cercare instancabilmente la verità in ogni ambito di conoscenza, condividere le ferite che ci accomunano, immedesimarci umilmente l’uno nell’altro, studiare reciprocamente le proprie storie, lingue, culture, sono passi di una strada che a scuola si può appassionatamente percorrere per far crescere persone libere, aperte e desiderose di costruire la pace.
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