Linee guida per la riapertura della scuola a settembre. Proprio nel momento in cui parte l’insegnamento formalizzato dell’educazione civica, il ministero dell’Istruzione non ha trovato nulla di meglio che dare, da marzo in poi, e confermare ora esempi anche un po’ imbarazzanti di dis-educazione civica istituzionale.



Doveva permettere ai genitori che riprendevano il lavoro a maggio la sicurezza che l’istituzione scuola nazionale si sarebbe impegnata per assicurare loro la frequenza scolastica dei figli minori che ne avessero avuto bisogno e fatto richiesta. Non tutti gli 8 milioni di studenti sarebbero certo tornati nelle aule. Ma questa offerta di servizio pubblico avrebbe potuto essere, da un lato, un’occasione per iniziare a familiarizzare studenti e docenti con una socialità scolastica fondata sul distanziamento fisico e sul rispetto delle regole sanitarie. Dall’altro lato, avrebbe potuto costituire una maslowiana peak experience (come abbiamo qui sostenuto fin dalla fine di marzo) per sperimentare fino a settembre, con una scholé estiva, nuove e diverse formule organizzative e didattiche.



Il governo ha invece costretto 40mila mamme a licenziarsi (per di più in un’Italia che già prima del Covid vantava il più basso tasso europeo di occupazione femminile) e, comunque, moltissimi altri genitori a fare sacrifici per prendere congedi o pagare baby sitter perché ha deciso di riaprire le scuole solo a settembre.   

Ma, secondo esempio di dis-educazione civica istituzionale, sono le Linee guida per la ripresa della scuola a settembre appena emanate e per fortuna ancora in discussione. Difficile che abbiano sollevato il coro di critiche così trasversali che si sono lette senza fondamento. A partire dalla provocazione di averle emanate a due mesi da settembre, quando ormai ogni non cosmetico intervento di natura edilizia sulle scuole e di natura logistica sui territori risulta complicato. Un provvedimento, insomma, che sembra fatto apposta per aumentare la già alta entropia di un sistema che, a settembre, con più della metà dei docenti italiani che cambierà sede, sarà ancora maggiore e renderà soltanto demagogico l’appello sempre conclamato al recupero degli apprendimenti (come, con ragazzi e famiglie che non si conoscono?) e alla continuità educativa e didattica.



È il principio generale che pare ispirare queste Linee guida, comunque, a essere palesemente dis-educativo dal punto di vista della responsabilità istituzionale. Purtroppo (come ho cercato di argomentare in Reinventare la scuola. Un’agenda per cambiare il sistema di istruzione e formazione a partire dall’emergenza Covid-19, Edizioni Studium, aprile 2020) lo stesso principio adottato fin dalla chiusura delle scuole iniziata a fine febbraio, ovvero quello di scaricare responsabilità e patate bollenti sempre su altri: i diversi Comitati tecnico-scientifici cresciuti come funghi, le Regioni, i Comuni, le istituzioni scolastiche, il privato sociale, le famiglie (addirittura a settembre dovranno procurare le mascherine per i figli e provare loro la febbre, non un addetto scolastico come accade quando si va in treno, dal parrucchiere, in una impresa ecc.). In sovrappiù senza fornire a tutti questi soggetti anche le risorse finanziarie e giuridico–amministrative per esercitare le responsabilità loro scaricate (si pensi alla miserevole vicenda dei tamponi: dopo ben cinque mesi dalla proclamazione dello stato di emergenza, l’Italia non è ancora in grado di farli per il numero che serve, quasi fosse un paese da terzo mondo). Come se, insomma, alla fine, a doversi dimostrare inefficienti e ad aggiungere ulteriori, pesanti disagi a quelli già esistenti non fosse l’inadeguatezza del centro e della sua classe dirigente, ma la mancata ingegnosità applicativa delle periferie. 

Vorrei qui limitarmi a mostrare questa dinamica su un tema che è il cuore stesso della funzione istituzionale del ministero: quello degli ordinamenti didattico-organizzativi.

Nelle Linee guida ci sono passaggi davvero molto innovativi a questo proposito. Non sono nuovi, è vero. Si ripetono purtroppo con reiterata inanità dal 1977 (le famose 160 ore annuali della scuola media), dal 1999 (Dpr 275) e dal 2003 (legge delega n. 53). Ma proprio perché finora scientemente disattesi sia a livello di sistema politico–sindacale che di mentalità diffusa, il loro recupero merita senz’altro plauso ed apprezzamento.

Per la prima volta con questa determinazione, infatti, causa norme sanitarie anti-Covid, i passaggi in questione parlano dell’indifferibile necessità di “riconfigurare il gruppo classe in più gruppi di apprendimento”;  di prevedere attività di “gruppi di alunni provenienti dalla stessa o da diverse classi o da diversi anni di corso” quindi gruppi di livello, di compito/progetto o elettivi, siano essi di approfondimento, recupero o sviluppo disciplinare e interdisciplinare; di aggregare “le discipline in aree e ambiti” molto più larghi del disciplinarismo fordista a cui siamo abituati; di “garantire, a ciascun alunno, la medesima offerta formativa, ferma restando l’opportunità di adottare soluzioni organizzative differenti, per realizzare attività educative o formative parallele o alternative alla didattica tradizionale”.

In altri termini, ribadiscono che le classi, i docenti disciplinari, i piani di studio giornalieri, settimanali e annuali, gli strumenti di apprendimento (tipo i libri di testo o la lavagna) non potranno più essere così come li abbiamo conosciuti. Tanto più che si chiede, almeno per le scuole secondarie di secondo grado, una opportuna pianificazione “di attività didattiche in presenza e digitali” e, per tutti gli ordini e gradi di scuola, di saper miscelare armonicamente i momenti formali, non formali e informali di apprendimento nei quali ogni studente oggi vive, grazie a “Patti educativi di comunità” che coinvolgano “vari soggetti pubblici” e “attori privati, in una logica di massima adesione al principio di sussidiarietà e di corresponsabilità educativa”. Senz’altro molto bene questa prospettiva del “learning anywhere and anytime”.

Ma il ministero pensa di poter davvero concretizzare per gli studenti e le famiglie queste buone disposizioni, continuando a immaginare l’inerzia dell’organico costituito per classi anche sdoppiate o reclutando il personale soltanto secondo le attuali classi di concorso e graduatorie? Insomma come se la questione si potesse affrontare semplicemente aumentando il numero dei docenti precari con le regole attuali anche di stato giuridico e di calendario?

Se così fosse, saremmo già sicuri che tutti i passaggi delle Linee guida prima apprezzati si rovescerebbero nel loro contrario: produrrebbero un disordine ingestibile non solo per i docenti, i dirigenti e le famiglie, ma per la qualità della formazione stessa degli studenti, già oggi molto insoddisfacente.

È vero che gli studenti non votano e che le famiglie sono più rassicurate dal riavere a settembre la scuola che hanno lasciato a febbraio che dal trovarne una affatto diversa. Ma il Covid, e ben prima del Covid la rivoluzione digitale, non solo nel campo dell’informazione e della comunicazione ma soprattutto in quello dei servizi e della manifattura d’impresa, ha reso del tutto anacronistico il modello della scuola tradizionale. Solo che per gestire con ordine la scuola nuova servono da subito docenti competenti non solo nell’insegnare quanto sanno in gruppi di livello, di compito, di progetto laboratoriale o elettivi, che siano essi disciplinari e interdisciplinari, ma anche nell’essere rousseauiani gouverneur degli studenti. Ovvero docenti che siano in grado di accompagnare come tutor “magistrale” un gruppo per esempio di 10–12 studenti per l’intera durata di un percorso formativo al fine di concordare con loro tutte le occasioni formative formali, non formali e informali che servono per maturare le competenze attese da documentare nel Portfolio personale. Ma, oltre che cambiare subito alcune norme e aprire una stagione contrattuale straordinaria, per dare gambe a questo orizzonte servono molti soldi e riconoscere davvero la scuola tra le priorità del paese, baluardo contro la disparità sociale, l’ignoranza, la decadenza culturale e civile.

Purtroppo niente di tutto questo appare anche solo accennato o presupposto nelle Linee guida. Da nessuna parte, inoltre, si è sentito dire che il ministro abbia chiesto al Governo e al Parlamento, proprio per rendere possibili le innovazioni didattiche e organizzative prima ricordate, due miliardi per selezionare tra i docenti in servizio, con procedure rigorose per titoli, esami e colloqui, quelli in grado di svolgere anche la funzione di tutor. E, se del caso, di assumerne pure altri attualmente non di ruolo, ma non perché in graduatoria nazionale e o di istituto, ma perché davvero competenti nel fare quanto richiesto dalle Linee guida sul piano didattico-organizzativo. Se no, restiamo al solito, italico “armiamoci e partite”. Magari con gli scarponi di cartone per spezzare le reni alla Grecia e per vincere la campagna di Russia. Parole, parole, parole che coprono soltanto la non commendevole somma dei tanti interessi corporativi esistenti.

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