Cara professoressa – scrivo “cara” anche se cara non sei, perché allo Stato costi troppo poco rispetto al compito che ogni mattina, a scuola ti viene affidato, ma scrivo “cara” proprio perché il tuo lavoro è veramente prezioso.
Da tempo non sono più uno studente e non sono nemmeno un lavoratore della scuola. Sono però padre di tre figli, marito di una tua collega, amico di altri docenti ed in passato ho diretto una fondazione impegnata nel campo dell’educazione. Mi sento perciò libero di porti una questione fondamentale che sta agitando il mondo della scuola: adesso serve coraggio, adesso occorre sfondare le quinte dell’apparenza.
Bisogna avere cuore e fegato e attraversare il fumo delle polemiche che si agitano intorno al dibattito Dad-non Dad, banchi a rotelle, trasporti, tamponi a campione e compagnia bella, almeno per come tutto questo ci viene presentato ogni giorno su tutti i canali. C’è bisogno di un generoso scatto di lealtà e di realtà verso questa generazione nella tempesta. Al bando quelli che minimizzano dicendo che la pandemia, vissuta da casa iperconnessi, non sia poi la fine del mondo per questi adolescenti un po’ viziati.
I segni di questi mesi ce li portiamo addosso anche noi adulti, anche senza aver contratto il virus, anche senza aver fatto un soggiorno in ospedale. Li sentiamo profondamente incisi nella nostra mente, nella nostra anima. Gli effetti di questa pandemia nel breve periodo riguardano sicuramente la salute, nel medio l’economia, nel lungo il disagio psichico e spirituale. È un’escalation inevitabile e irreversibile. Al bando anche tutti gli slogan e le frasi fatte su come ne usciremo cambiati. Di recente un autorevole osservatorio sui disturbi legati all’infanzia e all’adolescenza, l’Ospedale Pediatrico Bambin Gesù di Roma, ha rilevato come il numero di tentativi di suicidio e di casi di autolesionismo tra i giovani sia drasticamente aumentato nell’ultimo anno. Non sarebbe potuto essere diversamente, viene da dire a posteriori: isolamento forzato, mancanza di contatto fisico – sì, viviamo del contatto dei nostri corpi tanto quanto del nostro spirito –, giornate interminabili divise tra lo schermo scolastico e lo schermo del vuoto intrattenimento, impossibilità di sfogare quella sana ribellione e quel bisogno di distacco dai genitori che la giovinezza porta con sé come tappa fondamentale della crescita personale, stanno consegnando una generazione all’abbandono e alla violenza.
Hai voglia a dire: dovete impegnarvi a fare un po’ di movimento, dovete leggere un libro, e altre cose simili. Impossibile curare tutto questo con la saggezza. Serve la fisicità dei rapporti e dell’esperienza. I nostri figli sono spiaggiati nei salotti e nelle camerette da marzo in un’infinita convalescenza.
Perché allora mi rivolgo a te, cara professoressa? Perché man mano che i ragazzi tornano in classe tu possa guardarli negli occhi uno ad uno e cercare in loro quelle ferite. Ti prego: non avere l’unica preoccupazione dei voti da recuperare; prima di riempire le loro giornate di compiti in classe a ritmi forzati per riprendere il programma, ascoltali, fatti carico di quei lividi che forse non in tutti si vedono ancora, ma che presto o tardi coloreranno di nero la loro pelle; prova ad intercettare il dolore per quel vuoto interiore e fagli sentire che è anche il tuo.
Ora più che mai ti è chiesto di cercare l’invisibile nel visibile. Ti è consegnato un tesoro. Il salmo 8, rivolgendosi al più grande educatore della storia che è Dio, dice: “che cos’è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?”. Noi, di qua dai cancelli, cercheremo di accompagnarti per come potremo in questo compito vertiginoso.
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