Che cosa rappresenterà per un’intera generazione di giovani quello che stiamo vivendo? Che tracce lascerà nella loro storia, nel loro sviluppo, nella loro coscienza? In questi giorni, tra le migliaia di interviste con cui veniamo bombardati dai mezzi di comunicazione, raramente possiamo ascoltare le voci dei ragazzi, studenti o universitari che siano.
È il paradosso di questo strano virus: la sua violenza nei confronti degli anziani o dei pluripatologici estromette millennials e nativi digitali non solo dalla malattia, ma anche dalla partecipazione a quel dibattito pubblico che poi diventa coscienza condivisa, punto di ripartenza. Certo l’attenzione sulla scuola è molto alta, ma anche qui il motivo pare più essere legato ai doveri degli adulti, agli esami, ai contratti dei professori o alle ideologie pedagogiche, che al vissuto dei nostri figli. Come se non fosse importante, come se fosse un argomento minore.
Nessuno può sapere che cosa davvero stia accadendo nel cuore di tanti adolescenti, ma ci sono sicuramente tre parole che descrivono in qualche modo il contesto – l’impresa – con cui tutti si stanno misurando e che potrebbero essere quasi dei punti di avvio per chiacchierare con loro, per sentire finalmente che cosa hanno da dire.
La prima parola è “casa”: tutti sono in casa. Ogni ragazzo ha un’esperienza della casa diversa: per molti è un luogo da cui emanciparsi, da cui uscire in fretta, un luogo infantile che ripropone all’attenzione e alla sensibilità le alterne vicende dei matrimoni, delle malattie, dei conflitti. Casa non è sempre una bella parola: si può aver paura a stare in casa, può mancare l’aria, può essere perfino terribile. Quello che è in discussione non è l’affetto e la gratitudine per i genitori, quanto che cosa io – giovane – sono costretto a percepire, ad ascoltare, a considerate stando in casa. “Sono stata rinchiusa in ostaggio da tutto quello da cui scappavo” mi scriveva giorni fa una studentessa. Casa è un ideale, non sempre una facile realtà.
La seconda parola è “silenzio” inteso come vuoto, come solitudine, come assenza prolungata degli amici e del mondo di riferimento. Non è vero che ai ragazzi basta Netflix, la playstation o il cellulare: essi hanno fame di rapporti, di carne, di amori, di intimità, di amicizie che nessun adulto o fratello può loro dare. In questo senso non sono pochi quelli che in questi giorni stanno vivendo l’esperienza del lutto: lutto rispetto al proprio passato, alla propria vita, nella paura – e forse nel presentimento – che quello che stiamo vivendo non sia una parentesi, ma l’inizio di un periodo nuovo della nostra storia comune. C’è tanto affetto, nostalgia, tenerezza nei mille videocollegamenti che ogni giorno animano il mio studio e le mie chat. In poche settimane molti dei miei studenti sono passati da chiedersi “quando finirà” o “che cosa imparerò” a domandarsi “che cosa resterà di me e dei miei sogni” oppure se “è davvero questa la vita che mi aspetta”. Nella distanza e nel silenzio da cui volevano fuggire adesso sono costretti ad abitare, imparando molte verità, ma a tratti sperimentando come un disincanto, un’amara disillusione che rischia di spegnere ogni entusiasmo.
La terza e ultima parola che può descrivere i contorni dell’esperienza di molti giovani in questo tempo è “Mistero”: tutti i ragazzi chiusi in casa e alle prese con quello strano silenzio che li circonda, anche in un’abitazione caotica o piena di vita, stanno sperimentando che dietro quello che accade c’è molto di più, c’è come un appello alla loro vita, c’è come una domanda che si riapre e che a questo punto diventa radicale: “E io che sono? Per che cosa sono fatto? Che cosa significa amare e vivere? Cosa c’è dentro tutto questo per me?”.
Questa domanda può diventare rabbia o pianto, può trasformarsi in fede o in bestemmia, come per il Capaneo dantesco, ma c’è, scava, sfida, s’insinua. È lì, dentro le fessure di quella domanda, che i ragazzi hanno bisogno di trovare compagni di viaggio, compagni di dubbi, di paura, di silenzi, di fede. Adulti che mostrino loro che non siamo stati messi in casa da un virus per smettere di vivere, ma per vivere sul serio, insegnanti ed educatori che non li facciano pensare al “dopo”, ma all’ora, rendendosi amici nell’ora, discepoli dell’ora, pronti per l’ora.
Siamo davvero di fronte ad una provocazione grande per un’intera generazione che s’avvicina sul serio, ma non per la prima volta, al Mistero dell’esistenza. Solo che questa volta tutto questo tempo diventa d’improvviso lo spazio per giocarsi davvero, per non fuggirlo, per guardarlo in tutto il suo abisso.
Non pensiamo solo alla scuola, al vaccino, all’economia o alla fase due: ascoltiamo anche le nuove voci e i nuovi sospiri di questo secolo. Sono come una profezia dimenticata, presagio di nuove strade e antiche speranze che potremmo scoprire dove meno ce lo aspettiamo, proprio dentro noi stessi.