In fretta, dice la mamma togliendo la scodella e il piatto dalla credenza. Lui – che ormai è un bambino cresciuto – ha appena steso la tovaglia sul tavolo, ha messo il tovagliolo, i biscotti e il cucchiaio proprio lì dove di solito si siede a mangiare. È tutto pronto: c’è la bottiglia del latte e la copertina di lana di quand’era più piccolo, perché Gesù, nel suo viaggio di notte, avrà certamente bisogno di scaldarsi un po’. Ecco, sul davanzale della finestra adesso accendono la candela. È così che Gesù saprà che in questa casa l’aspettano: nel buio della strada vedrà quella fiamma e saprà che tutto è pronto per accoglierlo.
Da qualche anno anche lui ha capito: strani rumori di carte, passi che percorrono la scala, andirivieni di mamma e papà con le porte socchiuse, e lui che fatica a dormire. Certo, ha capito. Ma continua a preparare la tavola, ad accendere la candela, a rigirarsi impaziente e nervoso nel letto. Ormai è chiaro per lui che Gesù arriva così: con la faccia serena della mamma, le mani forti e la voce calma del papà che una volta gli ha detto di avere capito il Natale quando lui è nato. Che la vita è cambiata, che tutto – per lui e per la mamma – da quel momento lì aveva un senso diverso: il tempo e le cose avevano un centro, un inizio e una fine, nei suoi occhi di bambino, di regalo arrivato da chissà quale cielo.
Quella volta le parole gli sono sembrate difficili, ma lui, adesso che è un po’ più grande, ha capito. E continua ad accendere la candela alla finestra: perché Gesù, che incontra ogni giorno nei suoi genitori e che loro incontrano in lui, possa continuare ad arrivare da lui e da ognuno con la faccia, la voce e le mani capaci di accompagnarci nella vita di sempre. Così si addormenta dentro una certezza, quasi in braccio alla certezza di un Natale ch’è più grande dei regali che la mamma e il papà gli hanno incartato.
Non sei più un bambino, si è sentito dire da qualche suo amico. Come fai a credere che ci sia uno che viene da chissà dove e dice di essere un Dio che ci salva? Da qualche parte qualcuno vorrebbe addirittura che quella parola lì – il Natale – sparisse persino dal dizionario. A scuola è diventata ingombrante da un bel po’: resistono a stento qualche presepe o capanna, e, quando va bene, per i più piccoli, si prepara una recita con le renne e le stelle. Di angeli nemmeno più l’ombra. Sembra che la scuola abbia altro a cui pensare, come ha ricordato Federico Pichetto su queste pagine qualche giorno fa.
Ma la scuola non si accorge che ha ragione lui, questo bambino ormai cresciuto che continua ad accendere una candela alla finestra. La scuola non sa che questo è l’unico modo che ha per non morire come sta morendo. Com’è che si impara? Soltanto dentro un’esperienza in cui le parole sono sostenute e risignificate da braccia che accolgono, da occhi che accompagnano. Ce lo ricordano l’esperienza di questo bambino e le parole di María Zambrano: “Il maestro ha da essere colui che apre la possibilità, la realtà di un altro modo di vivere, la realtà della vita vera. L’azione del maestro può essere chiamata, più esattamente, conversione: si muta in attenzione l’iniziale resistenza che irrompe nelle aule”.
Questo bambino cresciuto che continua ad accendere la sua candela ha per sé un luogo in cui, nel corso del tempo, è stato introdotto da qualcuno a una certezza che ogni giorno dovrà mettere alla prova: davvero Dio è nato qui, tra di noi, un giorno, e ancora ogni giorno nasce?
Dice ancora la Zambrano: “La domanda comincia a dispiegarsi. L’ignoranza risvegliata è ormai l’intelligenza in atto”. E la scuola non dovrebbe essere, appunto, intelligenza in atto?
La scuola invece è indaffarata a progettare, a programmare, a rincorrere l’immagine del futuro studente suddividendo a puntate i suoi strabordanti documenti come in una serie televisiva. E il presente gli scappa da tutte le parti. Oppure la scuola insegue le parole d’ordine del momento, esattamente come quegli alunni tanto condannati perché inseguono l’ultimo influencer o l’ultimo rapper finto e incattivito. E così il senso dell’esperienza scolastica si riduce a moltiplicare proposte e iniziative slegate tra loro, con una proposta didattica che diventa – in obbedienza al grande monito inclusivista – una specie di arca di Noè, una continua fornitura di nozioni frammentarie. E, in bilico tra i progetti e le mode, la scuola abdica, rinunciando all’idea stessa di un’intelligenza in atto, che altro non è che il tentativo di dare un senso alle cose, un significato a una realtà sempre più sfilacciata, incomprensibile e violenta.
La scuola deve ascoltare questo bambino cresciuto e i suoi genitori che accendono la loro candela. Si impara e si educa così: ogni bambino ha bisogno di un maestro e di un posto in cui lui e il suo maestro possano cominciare a dialogare. A tutto quello che favorisce questo rapporto devono essere dati tempo e risorse; tutto quello che ostacola o avvilisce questo rapporto deve essere buttato via, scriveva già Raffaela Paggi in Alla ricerca degli essenziali.
Ecco, la scuola deve trovare ciò che è essenziale: i biscotti, il latte, la copertina e la candela grazie a cui rimane accesa la possibilità di stare oggi nel mondo con gli occhi aperti. E ci si possa accorgere oggi di un senso che viene e che cambia e salva la vita. La scuola – come tutti noi – ha proprio bisogno di questo Natale.
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