Caro direttore,
il tema dell’educazione delle giovani generazioni è da sempre al centro del vostro giornale, che lo affronta solitamente con competenza e attenzione, non sempre qualità così diffuse tra i media quando si parla di scuola, studenti, insegnanti.
Può quindi immaginare la mia sorpresa nel leggere il contenuto dell’articolo pubblicato lo scorso 9 gennaio nel quale venivano contrapposte alcune azioni dell’attuale ministero dell’Istruzione e del Merito alla “libertà di insegnamento”, paventando una sorta di esautorazione del ruolo e dell’autonomia didattica degli insegnanti.
Mi sembra dunque opportuno provare a fare un po’ di chiarezza sui punti sollevati che sono frutto, a mio avviso, di alcuni gravi fraintendimenti.
1. Il primo equivoco riguarda le conseguenze pedagogico-didattiche della riaffermata centralità della persona dello studente che il Mim ha voluto promuovere al fine di valorizzare e coltivare i talenti, le capacità e le attitudini di ciascuno studente. Da questo importante cambio di paradigma (sembra ovvio ricordarlo ma non è affatto così: la scuola è fatta innanzitutto per gli studenti e la loro formazione, non per altro), l’autore dell’articolo fa derivare una fantomatica “completa trasformazione del sistema di insegnamento-apprendimento nel nostro Paese, inteso fino ad ora in forma dialettica o dialogica” nella quale “non conta tanto ciò che si insegna, purché il contenuto della comunicazione sia ben recepito”.
È indubbio che, soprattutto dopo l’esperienza pandemica, proprio per favorire un efficace apprendimento degli allievi, agli insegnanti sia richiesto di avere maggiore attenzione su “tempi e ritmi che presiedono all’apprendimento stesso”. Ma non vi sono elementi per desumere da questa rinnovata richiesta di attenzione alle peculiarità di ciascuno studente un tramonto del contenuto dell’insegnamento. In questa direzione sono da leggere il rilancio dell’orientamento (attraverso le Linee guida per l’orientamento del 22 dicembre 2022, già commentate a suo tempo su questo giornale, così come l’introduzione del docente tutor e del docente orientatore. Quindi possiamo certamente concordare sul fatto che siamo di fronte a un cambio di paradigma rispetto al recente passato, ma volto a favorire una maggiore possibilità di apprendimento per ogni allievo, non il contrario. Si tratta di rilanciare quella “scuola dei talenti” illustrata dal ministro Valditara nel suo libro-manifesto e che chiede alla scuola e ai propri insegnanti di tirar fuori il meglio che ogni giovane è in grado di dare, valorizzando i talenti di ciascuno. Questo non può che avvenire ovviamente attraverso lo studio delle discipline, l’insegnamento di maestri appassionati, il dialogo con i propri allievi, la partecipazione ad esperienze didattiche innovative e originali. Temere “lacci e lacciuoli” limitanti la “libertà di insegnamento” dove invece vi sono solo ulteriori possibilità per personalizzare la proposta formativa e per innovare gli attuali percorsi di apprendimento degli studenti appare frutto quantomeno di confusione.
2. Il secondo malinteso riguarda una paventata esautorazione del ruolo dell’insegnante. In realtà, al netto dei grovigli burocratici e delle delicate sfide tecnologiche-antropologiche-educative che ci troviamo innanzi a livello globale, l’azione ministeriale ha iniziato a ridare centralità alla professionalità della figura dell’insegnante: a titolo di esempio si pensi ai significativi rinnovi contrattuali fermi da anni e alla riaffermata autorevolezza del docente anche attraverso la difesa giudiziaria gratuita di fronte a casi di violenza e aggressioni. Anche all’interno della classe il ruolo dell’insegnante non viene affatto scalfito, quanto semmai rilanciato e sostenuto da attacchi interni ed esterni. Nessun attentato, dunque, alla libertà di insegnamento, alla libertà di scuola né tanto meno all’autonomia didattica di ogni singolo insegnante, quanto piuttosto il contrario: difesa e tutela degli insegnanti da episodi di violenza e bullismo.
3. Il terzo misunderstandingriguarda il riproporre la contrapposizione tra discipline umanistiche e scientifiche-tecnologiche. Siamo ormai nell’era dell’IA e per affrontarla adeguatamente occorre rilanciare la prospettiva di un umanesimo tecnologico, nel quale non si può essere un buon informatico senza essere al contempo anche (almeno in parte) un linguista e non si può essere un buon docente di storia senza padroneggiare alcune competenze tecnologiche fondamentali. Anche sotto questo profilo, l’azione del Mim per il “potenziamento delle discipline tecnologico-informatiche” e in generale della filiera tecnologica avviata in particolar modo con la riforma del 4+2 attraverso l’istituzione della filiera tecnologico-professionale (legge 8 agosto 2024, n. 121) e la realizzazione dei campus formativi integrati non può essere certo accusata di voler sottrarre i giovani allo sviluppo dello spirito critico, semmai il contrario.
L’ibridazione di esperienze e contesti (imprenditoriali, formativi, educativi, sociali) e il confronto tra giovani di età differenti (il contestuale coinvolgimento nel campus di studenti delle scuole secondarie e di quelli degli ITS Academy) rappresenta l’esatto contrario di quanto sostenuto dall’autore dell’articolo quando parla di “carattere “monologico” della attuale formazione”. Si tratta invece di rilanciare una filiera formativa come quella tecnologica-professionale che da anni risentiva cali nelle iscrizioni, una generale difficoltà nell’innovazione dei propri percorsi formativi e di mancato pieno riconoscimento come percorsi “di qualità” per i giovani. Il campus, inoltre, potrà essere proprio quel luogo di relazioni interpersonali nel quale ogni studente possa essere accompagnato e guidato ad esperire la realtà di sé nel tempo e nello spazio della tecnologia, con spirito critico e creatività innovativa.
4. Infine, con riferimento alle scuole paritarie non statali, vi è da registrare, al contrario di quanto sostenuto, una grande attenzione “a ciò che avviene nel ramo non statale-paritario”. Alcuni esempi. Forse per la prima volta nella recente storia repubblicana abbiamo assistito ad una decisa azione di contrasto ai “diplomifici” con atti concreti a garanzia della qualità dell’istruzione nel nostro Paese, accompagnata da un deciso sostegno al pluralismo educativo e alla libertà di scelta educativa. Basti ricordare la possibilità di accedere ai fondi Pon anche per le scuole paritarie – una vera e propria ingiustizia che solo il coraggio e la tenacia del ministro Valditara è riuscita a superare – e, da ultimo, l’intervento nell’ultima legge di bilancio con l’incremento del fondo per gli alunni con disabilità, pari a 50 milioni di euro per l’anno 2025, salutato con “sollievo” dalle principali associazioni di gestori e genitori di scuole paritarie e l’aumento delle detrazioni fiscali per le spese scolastiche, con il passaggio del tetto massimo da 800 a 1.000 euro. Segni tangibili di una linea di indirizzo politico volta ad aumentare e sostenere un maggior pluralismo educativo nel nostro Paese, ancor più rilevanti se si considera che si collocano all’interno di un quadro di finanza pubblica com’è noto molto complicato e con scarsi margini di manovra.
Con questo non si vuole affatto sostenere che non ci siano sfide educative importanti e complesse e che talvolta alcuni dispositivi normativi anche internazionali rischiano di richiedere proceduralità, tecnicalità e tempistiche che poco hanno a che vedere con l’ambito educativo. Ma occorre stare attenti a non confondere le possibili soluzioni e sostegni – certo in molti casi pur perfezionabili e che inevitabilmente richiedono poi l’impegno di ogni attore in gioco per la loro efficace realizzazione – con le cause dei mali che invece si stanno provando ad affrontare e risolvere, con un coraggio e una tenacia che non si vedevano dalle parti di viale Trastevere da parecchio tempo.
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