“La lezione non è un tragitto su un tram che ti trascina avanti inesorabilmente su binari fissi e ti porta alla meta per la via più breve, ma è una passeggiata a piedi, una gita, sia pure con un punto finale ben preciso, o meglio, su un cammino che ha una direzione generale ben precisa, senza avere l’unica esigenza dichiarata di arrivare fin lì, e di farlo per una strada precisa. Per chi passeggia è importante camminare e non solo arrivare; chi passeggia procede tranquillo senza affrettare il passo”.



È quanto afferma Pavel Florenskij a proposito dell’ora di lezione che oggi, invece, viene considerata, per lo più, un “tragitto in tram che ti trascina avanti inesorabilmente”. Nella maggior parte dei casi, infatti, i nostri studenti pensano che sia inutile assistere a una lezione, da una parte perché sono incalzati dai loro genitori a frequentare, dall’altro perché la considerano un momento esclusivamente finalizzato a una verifica. Per entrambi è un dovere da assolvere per arrivare il più in fretta possibile al famigerato “pezzo di carta”. Le stesse verifiche, inoltre, hanno sempre più il sapore di una mera misurazione di quello che occorre sapere per ricevere velocemente il premio tanto atteso.



Si è sempre più imbrigliati nella morsa di un voto e di un attestato che certifichi esclusivamente il raggiungimento di determinati obiettivi; un risultato che sia valido soltanto per la conclusione di un ciclo di studi. Il traguardo che continua a tenere incollati gli studenti a scuola e che motiva i loro genitori è soprattutto la valutazione, che riescono ad accettare di buon grado solo se positiva. In un momento così delicato della crescita dei nostri giovani, la scuola si sta trasformando sempre di più in una sorta di diplomificio.

Se invece si scava più a fondo e non ci si ferma sulla cresta dell’onda, o alle aride richieste della nostra società di massa, si scopre che sia i genitori sia i ragazzi hanno veramente bisogno della scuola, cioè di un luogo in cui il docente non sia un semplice “manovratore di tram”, come nell’esempio di Florenskij, ma una guida di persone vive, in cammino, alla scoperta di ciò che viene condiviso in classe.



I nostri giovani sentono l’urgenza di poter gustare la vita, di poter comprendere ciò che li circonda, di poter assaporare un’ora di lezione per dare un nome alla loro esistenza, un significato a quello che vivono. Perché la scuola torni ad essere skholé, nel suo etimo e significato greco, cioè “tempo libero”, luogo in cui vivere il proprio tempo per discussioni filosofiche e scientifiche, per cercare sé stessi e la verità, occorrono insegnanti appassionati alla vita e alla loro disciplina, come strumento di conoscenza della realtà. Ciò che il maestro dovrebbe comunicare è innanzitutto il gusto della ricerca della verità; il docente dovrebbe offrire un metodo di lavoro e innescare un fermento intellettuale per la vita, per il “concreto”, come afferma sempre Florenskij: “Quanto alla fermentazione della psiche, essa consiste nel gusto per il concreto acquisito per contagio; consiste nella scienza di saper accogliere con venerazione il concreto, nella contemplazione amorosa del concreto. Del resto, il concreto è l’oggetto stesso della ricerca scientifica diretta, nel senso di fonte prima, che si tratti di una pietra, di una pianta o piuttosto di un simbolo religioso, un monumento letterario”. Se la lezione in classe si trasformasse nella “gioia del concreto”, la scuola stessa diventerebbe il luogo della gioia di educare e di apprendere.

Quanto è entusiasmante poter entrare in aula e riuscire ad intercettare, negli occhi degli allievi, il bisogno di diventare uomini liberi e felici; quanto diventa sconvolgente scoprire che i nostri ragazzi non hanno come orizzonte il banco di scuola, ma una prospettiva molto più ampia. Niente ripaga il volto lieto e compiaciuto di un allievo che sta scoprendo chi è grazie al rapporto con un adulto che gli tende la mano. L’insegnante riscopre il suo compito in rapporto allo sguardo dei suoi alunni, e i ragazzi comprendono la loro vocazione in base ai suggerimenti discreti, alle intuizioni e alle ispirazioni che l’occasione di un’ora di lezione può offrire.

Quando un eroe greco, una figura mitologica, il passo di una poesia, un’equazione matematica, una formula chimica non diventano i contenuti di una futura interrogazione, ma gli strumenti per iniziare una ricerca personale della propria dimensione interiore, del mondo circostante; quando si torna a casa più consapevoli di chi si è e si racconta a tavola, in famiglia, tutto ciò che si è scoperto a scuola, si comincia a sperimentare l’utilità di quel tempo trascorso in classe e si può affermare veramente di aver svolto una didattica orientativa, come ci viene ultimamente richiesto dalle Linee guida per l’orientamento. Vale la pena svegliarsi al mattino, affrontare le difficoltà della giornata, perché c’è un insegnante che ci attende per accompagnarci a scoprire l’orizzonte e non per annoiarci o per riempire di voti il proprio registro.

I ragazzi hanno bisogno di questo: ultimamente, infatti, la loro richiesta più pressante è quella di avere insegnanti capaci di entrare in rapporto con loro e di comprendere le loro esigenze. I ragazzi hanno bisogno di essere guardati per quello che sono e per il loro destino di uomini.

Anche i genitori, in fondo, cercano un luogo così, soprattutto in questo momento di Open days, con l’iscrizione al futuro anno scolastico che si avvicina e si ricerca la scuola più adatta per i propri figli. Gli episodi di violenza che hanno visto protagonisti alcuni genitori contro dei docenti segnalano indubbiamente che qualcosa si è incrinato nel rapporto scuola/famiglia, due agenzie educative che non possono essere percepite in opposizione o in contrasto, quando c’è di mezzo la crescita dei ragazzi. L’alleanza educativa tra genitori e insegnanti si può ricostruire a partire da un interesse comune: il futuro dei ragazzi, il loro destino di uomini.

Le famiglie si possono affidare alla scuola solo perché in questo luogo i ragazzi potranno diventare ciò per cui sono nati e questo potrà avvenire soltanto se ci sono docenti impegnati con la propria vita e interessati a quella dei loro allievi, insegnati impegnati a educare e a costruire un’identità, come affermava Pier Paolo Pasolini: “Penso che sia necessario educare le nuove generazioni a […] costruire un’identità capace di avvertire una comunanza di destino”.

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