I bambini delle elementari e i ragazzi delle medie devono sapere che maestri e professori sono messi anche peggio di loro. Sappiano – ma lo sanno già, non sono così sprovveduti – che sui cellulari laureati abitano decine di chat dai titoli più o meno improbabili. Da whatsapp a telegram si sprecano le dimore di commissioni, collegi, consigli di classe e di interclasse, con genitori e senza genitori, e poi sottogruppi esclusivi (altro che inclusione come obiettivo assoluto del percorso didattico): quelli di lettere, quelli che se la tirano, quelli belli e impegnati, quelli della colazione, quelli che perdono tempo ecc. ecc.
E sul finire del mese di agosto il traffico riparte, autostrade intere di messaggi attraversano l’Italia, dalle isole alle Alpi, con cuoricini infranti per la fine delle vacanze, fotografie di tramonti davanti al mare e a coppe di aperitivi esotici, singhiozzamenti e punti esclamativi che commentano la prima, terribile mail del dirigente scolastico che invita tutti a tirare i remi in barca e ad arrivare lì, nel sicuro porto della scuola che… riparte.
Ecco, il mio amico Giuseppe, già piuttosto parco nelle sue frequentazioni social, il giorno 31, vista l’anteprima del cedolino della pensione cordialmente pubblicata dall’Inps, che per inciso non gli aveva ancora inviato nessun decreto confermativo del suo diritto alla pensione medesima, ha inviato il suo ultimo messaggio da uomo di scuola: poche righe, dopo tutti i saluti in presenza e in sicurezza più volte ripetuti in qualche cena inventata con i pretesti più disparati. Più o meno adducendo motivazioni ironicamente seriose – con rammarico mi vedo costretto ad abbandonare il gruppo, visto che trattasi di strumento di lavoro (!) io non facendo più questo lavoro – ma sotto sotto con una qualche segreta soddisfazione per tutta la fatica digitatoria e intellettuale che si risparmierà per destreggiarsi tra una chat e l’altra.
Libero, ha pensato la sera del 31. Prima che io comunque lo chiamassi per dirgli che la chat della colazione del 1° settembre mi aveva incaricato di chiedere a lui e agli altri colleghi pensionati di invitarli al rito di inizio anno, prima che cominciasse il collegio, rigorosamente online e non si capisce il perché, visto che al bar pasticceria in venti professori doppiamente vaccinati e greenpassati si sarebbero abbracciati, baciati, parlati, passati lo zucchero e il telefono con le foto di mano in mano.
Qualcuno dei colleghi, quello del gruppo dei creativi per intenderci, ha già immaginato e battezzato la nuova chat in cui Giuseppe e i suoi fratelli di pensione si potrebbero accasare in modo da essere prontamente tutti avvisati di amenità varie ed eventuali: Cantieri è il nome, e suona persino simpatico, ha detto Giuseppe mentre sorseggiava il suo cappuccino il primo di settembre. Ma ha detto che preferiva di no, un po’ come il Bartleby di Melville, mentre noi ci alzavamo per andare a fare il collegio in qualche aula della scuola abbandonata alla furia programmatoria e improduttiva di presidi, bidelli, ministri e sottosegretari che in realtà ha lasciato le cose come stavano, con l’aggravante che il tempo sembra essere passato invano.
Noi al lavoro, comunque, mentre Giuseppe e i suoi fratelli liberi di andare a controllare i cantieri aperti sulle strade, tra le vie, nei giardini. Cantieri aperti ovunque, insomma. Tranne che nella scuola, ci ha detto malinconico salutandoci Giuseppe. E non parlava solo delle aule, dei banchi e delle Lim: quelli noi ce li abbiamo già. È tutto il resto che manca. La sera, dopo un collegio che ha suscitato in tutte le chat aperte e sovrapposte frenetici e irripetibili commenti, ho ricevuto una mail da Giuseppe. L’ha mandata a me, non al gruppo di lettere: lui non c’è più nemmeno lì.
Mi ha mandato una poesia di Zagajevski, s’intitola La matita. Dice così: “Gli angeli ormai non hanno più tempo/ per noi; stanno lavorando per le generazioni future -/ chini sui quaderni di scuola/ scrivono e cancellano, correggono/ i complicati schemi/ della felicità incipiente/ tenendo nella bocca/ una grossa matita gialla – /come bambini alla prima lezione,/ sotto l’occhio della maestra/ che sorride benevola”.
Accidenti, Giuseppe: che scuola è questa di cui parla il poeta? E si può scrivere davvero la felicità? Non è che questo è il vero cantiere a cui dovremmo interessarci? E infine: non sarà possibile chiedere a questi angeli che tornino a lavorare anche per noi, per le generazioni presenti, adulti compresi? Che si sa, sono come dei bambini, basta guardare le loro chat. Girerò la poesia a qualcuna delle mie, Giuseppe. E ti chiederemo di raccontarci cosa vedi tu su questi benedetti cantieri.
Intanto ricominciamo, sperando di vedere presto lo sguardo dei ragazzi, sperando che sia ancora come quello del modello di Monet nel quadro che sempre Zagajevski descrive: “uno sguardo di sfida/ come sempre accade agli esseri felici,/ il cui unico compito/ è apparire, brillare, e che/ a parte questo non hanno nessun’altra cura”.
E se così non sarà, sperando di essere capaci di rimetterci con loro a tentare di scrivere quella felicità incipiente per cui siamo fatti. Ecco, ricominciamo da qui, almeno. Guardiamoci.
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