In classe ho appena terminato Leopardi. Due mesi di letture intense, di confronti il più possibile senza veli sulla faccia, di riflessioni personali a partire da una siepe, un passero solitario, una donzelletta che vien dalla campagna. Roba d’altri tempi, si dice in giro, roba che ai ragazzini di oggi coi loro telefonini sempre accesi non fa un baffo.



Invece no. I temi che ho pensato per loro a conclusione del percorso si sono rivelati nel loro svolgimento una miniera di bellezza. Inattesa, devo ammetterlo, nel senso che neppure io mi aspettavo un’esplosione simile di desideri e bisogni repressi scaturiti a partire dai versi scritti da un poeta – gobbo, malaticcio, solitario – all’apparenza così lontano dai giovani di oggi, costretti ad essere perennemente aitanti e iperconnessi.



All’apparenza, appunto. Messi alle strette da un loro coetaneo che ha avuto la forza di prendersi sul serio, ciascuno s’è sentito in dovere di fare altrettanto e ha descritto la propria fatica di vivere nel momento delicatissimo dell’adolescenza, quando l’infinito si spalanca per la prima volta di fronte a sé e sembra un baratro che risucchia l’anima e strozza il fiato. I giovani soffrono spesso di vertigini quando si affacciano sul colle dell’infinito. Può capitare anche agli adulti, ma a differenza di questi ultimi non hanno appigli sicuri cui aggrapparsi.

A vederli così, chini sul loro personalissimo tentativo di dire chi sono ad un adulto di cui finalmente si fidano, non sembrano gli stessi che riempiono le cronache per le foto hot scattate in classe o chissà dove e finite sui social. Immagini porno mescolate a battute sugli ebrei o, nel migliore dei casi, bullismo a buon mercato ai danni della compagna di classe un po’ goffa e con gli occhiali da secchiona. Le cronache degli ultimi giorni ne sono piene.



Cosa li spinge verso questa doppia personalità che fa dire ai loro genitori, quando si degnano di presentarsi ai colloqui con l’insegnante: “Non riconosco più mio figlio, non so cosa fare”?

La maggior parte dei temi prende spunto proprio dai difficili rapporti che Leopardi aveva con i genitori, dai quali non si sentiva compreso, per rispecchiarvisi. Il dramma del Poeta è il loro dramma. A volte ingigantita dalla tendenza a vedere tutto nero, a volte riflesso di una realtà ben più crudele di quella stessa leopardiana, sentono quella vita perduta nel “natìo borgo selvaggio” come la loro vita personale e perfino quei “sette anni di studio matto e disperatissimo” diventano, almeno per un momento, comprensibili anche agli occhi di chi fatica a stare sette minuti su un libro.

Potrebbero essere i nostri ragazzi, allora, figli di una controciviltà che appiattisce le differenze in nome di un egualitarismo senza prospettive, a chiederci: “Non riconosco più mio papà e mia mamma, cosa devo fare?”. Perché è questo, in fondo, che li spinge a cercare altrove – fosse pure soltanto in un emoticon, una chat rubata alle due di notte, un video girato in palestra mentre la compagna si toglie la maglietta e reso subito virale – il punto d’appoggio che in genitori distratti dalla mediocrità del vivere non trovano più.

“Per me la vita è stata bella perché l’ho pagata cara” scriveva Alda Merini. Come dire che non si può arrivare alla meta camminando sempre e solo su una strada piana. Diciamola tutta e diciamola bene: se i ragazzi e ragazzini e perfino bambini di oggi – i nostri, non quelli degli altri, i nostri figli e nipoti e alunni, quelli cui al prossimo Natale regaleremo il telefonino nuovo – cercano la felicità nei mille rivoli virtuali messi a disposizione da un cellulare è perché per loro la realtà ha già perso attrattiva. O, peggio, perché è diventata di colpo talmente attrattiva da poter essere scambiata per virtuale. Nella spasmodica ricerca del gusto di vivere, senza il quale ogni vita diventa inutile.

Così la compagna, l’amico, la ragazza diventa facile merce da possedere come si possiede una cosa qualsiasi. Realtà alla quale si crede di poter strappare l’anima con uno scatto del telefonino da gettare sul mercato senza valore dei social.