Se qualcuno ha letto miei precedenti interventi sul Sussidiario, forse ricorda che un tempo avevo l’abitudine di suggerire al ministro in carica alcuni buoni propositi per il nuovo anno: poi ho smesso, perché si trattava sempre delle stesse promesse che non venivano mai mantenute. Così, per un momento ho avuto la tentazione di riciclare uno dei miei vecchi articoli, e forse non se ne sarebbe accorto nessuno; ma poi ho pensato di fare una scelta diversa.



Proseguo dunque nell’abitudine di coinvolgere i miei 23 lettori (Manzoni ne contava 25, Guareschi 24) nelle mie letture, in particolare in quelle ripescate in quella nota branca degli scavi archeologici che va sotto il nome di “riordino natalizio” (o primaverile).

Questa volta il libro riscoperto è Le tendenze della comunicazione, uscito nel 1951, di Harold Innis, collega e in un certo senso anche maestro del molto più famoso Marshall McLuhan, che scrive l’introduzione al libro. Lo scopo che mi spinge a parlare di un testo che ha settant’anni, un’età veneranda in un tempo in cui la situazione cambia ad una velocità senza precedenti, è il fatto che fornisce una serie di stimoli  a chi oggi studia le nuove forme di comunicazione, e il rapporto che hanno con l’educazione, tanto più che Innis scrive: “ho cercato di usare la parola informazione coerentemente, sebbene sia consapevole che la vera parola sarebbe educazione”.



Nel 1951 è la radio il medium innovativo, perché la televisione è agli albori in Canada e non è ancora arrivata in Italia, ma nella prefazione all’edizione italiana del 1981 (trent’anni dopo, ma pur sempre quarant’anni fa) Sartori scrive che “possiamo cominciare con l’ipotizzare che l’uomo televisivo del XX secolo sia un individuo totalmente diverso da quello che è cresciuto in tutti i secoli che hanno preceduto i trent’anni di era televisiva; un individuo, in particolare, specularmente opposto a quello formatosi nella cultura umanistica, dal Rinascimento in poi”.

La stessa domanda possiamo porci in relazione ai nuovi media elettronici che stanno soppiantando la televisione, almeno per i più giovani: l’uomo del XXI secolo è totalmente diverso non solo da quello dei secoli precedenti, ma dalla generazione “televisiva” dei suoi padri o anche, mi verrebbe da dire, da lui stesso com’era quando aveva l’età dei suoi figli? Mi sembra una domanda cruciale soprattutto per gli insegnanti e i genitori,  che hanno il compito fondamentale, gli uni nella scuola e gli altri nella famiglia, di costruire il legame fra le generazioni trasmettendo la cultura, o quantomeno quella parte di cultura che ha superato il vaglio critico della generazione precedente.



Nel ricostruire questo processo, Innis parte addirittura dal 19 luglio del 4241 avanti Cristo, quando Sirio sorse all’alba segnando nell’antico Egitto l’affermarsi dell’anno di 365 giorni, e ripercorre lungo i secoli il modo in cui le diverse tecniche della comunicazione, dalla pietra all’argilla al papiro alla pergamena alla carta, hanno segnato la nascita e il declino di forme di potere e di culture diverse: forse oggi è sufficiente prendere atto che sempre meno la cultura è capace di “insegnare all’individuo a decidere di quanta informazione abbia bisogno per conferirgli un senso di equilibrio e di proporzione e per proteggerlo dai fanatici… e per metterlo in grado di fare i passi giusti al momento giusto”.

Viviamo invece in una società dominata dall’ossessione per il presente, in cui l’informazione viene fornita quasi sempre senza possibilità di controllo, e il valore dell’esperienza viene bruciato in tempi rapidissimi da una tecnologia istantanea e onnipresente, incapace di creare quelle  comunità solidali di cui l’uomo sente così intensamente il bisogno da ricostruirle nella forma distorta dell’integralismo, oppure sostituendo in estensione, attraverso centinaia o migliaia di like, la rete amicale che la superficialità dei rapporti non riesce ad attivare.

Ma questa domanda la scuola se l’è mai posta? Gi insegnanti, ma anche – ripeto – i genitori, si sono chiesti chi sono i ragazzi che si trovano di fronte, o si rassegnano, per dirla con una canzone di J-Ax & Fedez (come vedete so adeguarmi ai nuovi maitres à penser), a considerarli “sconosciuti da una vita… Ti conosco da sempre ma non ti ho mai capita”?

La questione non è irrilevante: se la domanda educativa di fondo è sempre la stessa, quella di essere amati, e di vivere una vita che abbia un senso, si declina però in modo diverso a seconda dei momenti storici, e deve trovare una risposta capace di rendere conto dell’oggi, e non solo del passato, o del futuro. In questo particolare momento storico, in cui le esperienze di isolamento hanno esteso enormemente un senso di solitudine che le forme attuali della comunicazione non riescono a spezzare, io penso che il compito fondamentale della scuola sia innanzitutto quello di ricostruire la capacità di ascolto e la trama delle relazioni.

Per fare questo non c’è bisogno, non c’è solo bisogno, di tecnologie (si potrebbe arrivare a dire con Innis che “gli sviluppi moderni della comunicazione hanno contribuito a creare sempre maggiori possibilità di delusione”) o di investimenti, che pure sono utili e in alcuni casi indispensabili: né si può affidare a una riforma dei curricoli, degli orari, della struttura dei cicli, quella capacità di compagnia critica e costruttiva che dovrebbe essere la dote irrinunciabile di ogni insegnante, accanto alla preparazione disciplinare e metodologica, o forse ancora prima. Una scuola più attenta a sviluppare, oltre alle competenze cognitive, anche quegli aspetti della persona che sono meno formalizzati e che vengono variamente definiti (competenze non cognitive, tratti della personalità, competenze socio-emotive), può aiutarli ad affrontare il viaggio della vita in una società che, direbbe Dante, si configura come “nave senza nocchiero in gran tempesta”. E aiutare i ragazzi a crescere in un mondo capace di ascoltarli è un proposito per il prossimo anno che ciascuno di noi può fare, rinnovandolo tutte le volte che è necessario.

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