E’ passato già più di un mese dall’inizio di quest’anno scolastico. Ricordo ancora la trepidazione nei giorni che hanno preceduto questo nuovo inizio, carica del desiderio di rincontrare i colleghi, gli alunni, insomma quelle facce lì. C’è sempre, in chi inizia, una “strana” attesa, una domanda segreta, un desiderio di nuovo insopprimibile.



Neanche il Covid lo ha spazzato via. Suona la campanella e, dopo il lungo periodo di lockdown, lezioni a distanza e mascherine variopinte a coprire facce smarrite, sorprendo inaspettatamente in giro, tra colleghi, amici ma soprattutto nei miei allievi, una fatica enorme al ritorno alla socialità.

Si gridava al ritorno in presenza per riconquistare la normalità. E adesso che il Green pass e la scoperta dell’antidoto al virus sono a nostra portata, perché si preferisce rimanere rintanati, continuando a preferire la modalità remota? Forse per gli adulti c’entra anche la comodità delle mura domestiche. O forse no.



Comunque ciò che mi interpella è che non pochi ragazzi, al di là delle piccole bolle di amici, faticano ad andare incontro all’altro, al diverso, a ciò che è fuori dalle loro previsioni. Eppure, sappiamo tutti per esperienza, che senza ciò che differisce da noi, siamo destinati a non scoprire niente di noi stessi. Risuonano in me i versi di una poesia di Charles Bukowski: “Adesso ci sono computer e ancora più computer, e presto tutti ne avranno uno, i bambini di tre anni avranno i computer e tutti sapranno tutto di tutti gli altri molto prima di incontrarli e così non vorranno più incontrarli. Nessuno vorrà incontrare più nessun altro mai più e saranno tutti dei reclusi come me adesso”.



Perché questa fatica nel ritorno alla socialità? Diceva qualche giorno fa il professor Stefano Gheno alla Convention annuale di Diesse, durante una bella tavola rotonda promossa dall’associazione costituita da insegnanti e dirigenti come soggetto riconosciuto dal Ministero dell’Istruzione per la formazione del personale della scuola, che in ogni relazione umana è inevitabile la fatica. Oggi, forse più di prima, e in questo la pandemia ha solo contribuito ad accelerare un processo già in corso, la dimensione della fatica non è più accettata come strada. Forse, dico io, perché è urgente vedere incarnato il senso, il significato per cui vale la pena implicarsi con una vita diversa.

Come affrontare questo frangente? Il contesto esistenziale e culturale che stiamo vivendo nel mondo odierno pone diversi interrogativi e la risposta non può essere data da uno solo né tanto meno una volta per tutte.

Da dove partire allora per scoprire sentieri possibili da percorrere? Il solco che Papa Francesco ci indica mi pare sia centrale in questo senso. L’ascolto come metodo per camminare insieme. Questa la strada indicata all’inizio di questo grande Sinodo che si è aperto qualche settimana fa: tentare un discernimento comunitario, ascoltando e ascoltandoci, come ci indica il Documento preparatorio redatto dal Sinodo dei Vescovi: «Una tragedia globale come la pandemia da Covid-19 ha effettivamente suscitato per un certo tempo la consapevolezza di essere una comunità mondiale che naviga sulla stessa barca, dove il male di uno va a danno di tutti: ci siamo ricordati che nessuno si salva da solo, che ci si può salvare unicamente insieme» (FT, n. 32).

Per me che insegno pensare, e quindi parlare, è parte fondamentale del mio lavoro. Ma sono disposto innanzitutto a camminare mettendomi in ascolto? So ascoltare il grido dell’uomo moderno, del giovane di oggi? Sono leale con il mio stesso grido di felicità? A chi posso gridare i miei desideri e i miei bisogni? Mettendo da parte il miraggio dell’autosufficienza, possiamo imparare gli uni dagli altri. Questo è impellente: combattere il virus dell’autosufficienza perché siamo tutti sulla stessa barca.

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