Non saprei come raccontarlo. Scriverlo in pubblico, tra l’altro, vuol dire autodenunciarsi, giacché abbiamo violato parecchie regole: della scuola e del buon senso. Era una sesta ora, di quelle che andrebbero abolite: con cinque materie già sul groppone e la prospettiva dei compiti pomeridiani, quale latino pretendi mai di elemosinare? Invece in classe mi sono ritrovato dieci intrusi. Ripeto la notizia del secolo: dieci adolescenti di altre classi sono venuti volontariamente a fare una sesta ora di latino. La loro campanella era suonata, il treno dei pendolari era partito, doppi fini non potevano esserci, visto che tanti non sono neanche miei alunni.
Mentre tutti non vedono l’ora di scappare via, c’è chi “viaggia in direzione ostinata e contraria”. Perché mai volevano esserci, farsi un’ora in più, per giunta di latino, a costo di rientrare a casa alle 15?
Rincorrevano una promessa, la promessa di una scuola bella, che avevano intravisto la settimana precedente ai Colloqui fiorentini. Scesa dal treno, Angelica li aveva raccontati così: “In una vita intera non ho mai vissuto nulla di simile, né considerato qualcuno con tale ammirazione. Come diceva un relatore durante i Colloqui, ‘le cose cambiano nel momento in cui accade un avvenimento’, quando il momento prima era tutto uguale e quello dopo la linea del tuo grafico temporale subisce un’alterazione; come quando pedali una bici con delle ruote bagnate: esse tracciano una linea costante, con l’acqua umidiccia che si attacca alla strada, ma improvvisamente, a seguito di una frenata, distruggono la continuità del tuo tracciato, rendendolo diverso e mai più uguale a prima. Ciò che è cambiato in me è la consapevolezza di avere qualcuno capace di poter capire la mia incompletezza e che in quei giorni monotoni, quando nei corridoi di scuola incontrerò gli sguardi di chi è dimezzato come me, ricorderò con un semplice ‘ciao’ quanto straordinario sia considerare degli ‘sconosciuti’ amici eterni che potranno sempre capire le tue ferite”.
È un sorpasso a destra, Ungaretti lo chiamerebbe un “minuto di vita / iniziale”. La sesta ora era finita e quegli intrusi continuavano a parlare di Orazio e di sé, carpendo finalmente il diem. Non è una rivoluzione un desiderio così limpido?
Eppure, raccontandolo, non ci stiamo gloriando, anzi. “Il fatto è che la bellezza è insopportabile. Ci riduce alla disperazione, è l’eternità di un minuto che pure vorremmo dilatare nel tempo”, ha scritto Albert Camus. Quattro anni fa, al rientro dai Colloqui fiorentini, un’intera terza si commosse fino alle lacrime, e una scorta di fazzoletti non bastò a frenarle. Dove sono finite tutte quelle lacrime? Quale secchio (non) le ha raccolte?
Non si cresce per fiammate, per minuti di vita iniziale: in uno dei Dialoghi con Leucò Pavese allude a “sei giorni che a Iacinto cambiarono il cuore e rinnovarono la terra”, quando si era innamorato del dio Apollo, il quale però non “raccolse l’entusiasmo che leggeva in quegli occhi – gli bastò suscitarlo”.
Se il problema della scuola è che annoia e mortifica ogni passione, d’altro canto la soluzione non è suscitare entusiasmi: fosse per quello, andrebbe bene qualunque tiktoker. Insegnare non è appena stimolare, ma “giorno dopo giorno silenziosamente costruire”, come canta Niccolò Fabi: suscitare un habitus. L’ha osservato, tra gli altri, Claudio Giunta: “dire le cose non serve se chi ascolta non è stato educato ad apprendere, cioè a interessarsi delle cose che gli vengono dette e a considerarle degne di attenzione e di sforzo”.
Ognuno può constatarlo pur non frequentando le aule scolastiche: se chi è con te non è educato ad ascoltare, se manca un clima d’ascolto, anche le canzoni più belle che vorresti proporgli vengono buttate al vento, sommerse dalle chiacchiere, come un’ennesima stimolazione da consumare distrattamente. Conta la bellezza della pagina, il fiotto della sorgente, ma poi anche le condutture con cui l’acqua può arrivare fino al terzo piano di un quartiere qualsiasi, o confluire dentro il cuore dell’ultimo ragazzo in un’aula sperduta.
La nostra è un’epoca di danaidi, che secondo la mitologia raccolgono eternamente acqua dentro vasi forati. L’abitudine a scorrere, ad applaudire, a premere “next” riduce ogni esperienza a sensazione, impedendole di diventare pensiero, di passare dalla pancia all’intelligenza. Oggi più che mai, ogni esperienza si rattrappisce in un punto, che stranamente non lascia la scia. E alla fine di cinque anni o di una bell’ora di lezione cosa rimane?
Quando confesso questi tormenti, amici e colleghi provano a rassicurarmi: “l’importante è seminare”, sentenziano. Questa saggezza facile è francamente irritante. Vorrei trovare un contadino – uno solo! – sulla terra che sia d’accordo con l’idea che “l’importante è seminare”. Davvero non fa caso alle piante intorno, a come e dove e quando e se seminare? Conta il seme, certo, ma anche il terreno su cui cade.
Dante nel Paradiso è stato chiarissimo: “La carne d’i mortali è tanto blanda, / che giù non basta buon cominciamento / dal nascer de la quercia al far la ghianda”. E altrove: “Ben fiorisce ne li uomini il volere; / ma la pioggia continüa converte / in bozzacchioni le sosine vere”. Ogni “cominciamento” è meraviglioso, ma la pioggia continua del mondo e la mollezza del proprio atteggiamento facilmente distruggono ogni frutto. Lo conferma Pasolini: “Il lavoro del maestro è come quello della massaia, bisogna ogni mattina ricominciare daccapo: la materia, il concreto sfuggono da tutte le parti, sono un continuo miraggio che dà illusioni di perfezione. Lascio la sera i ragazzi in piena fase di ordine e volontà di sapere – partecipi, infervorati – e li trovo il giorno dopo ricaduti nella freddezza e nell’indifferenza”.
Una mattina entri nella stessa classe, scrivi una frase alla lavagna, e un gruppo si avvicina, tutto preso dalla curiosità, e si rimane lì in piedi un’ora intera, a cercare di capire, a fare domande, a cercare risposte, mentre un’altra metà della classe se ne infischia beatamente, inchiodata al banco, a fare nulla. La sesta ora in trenta dov’è finita, se un mesetto dopo non siamo neanche dieci?
Ci si potrebbe imporre d’autorità, scolasticamente, ma nel corso delle giornate cosa vorresti mai imporre? nel segreto dei cuori cosa vorresti mai imporre?
Sotto le eccezioni scorre il fiume del torpore. E non sarà nemmeno “la partecipazione attiva dei ragazzi” a risolvere il problema: “occorre ben altro che adottare un metodo più moderno e intelligente. Si tratta di sfumature, di sfumature rischiose ed emozionanti”, scriveva ancora Pasolini. L’illusione di chi crede “ai miglioramenti graduali e prevedibili” (al raccolto della propria semina) è un “ottimismo che non calcola il mistero e l’incongruenza che sono in fondo le concrezioni della libertà”, non tiene “conto in concreto delle contraddizioni, dell’irrazionale, del gratuito e del puro vivente che è in noi”.
È con queste contraddizioni che occorre fare i conti, quando alla fine dei fuochi d’artificio torna a spalancarsi il buio della notte. Ci vuole “la competenza vivente di chi vive nel cerchio continuamente mobile dello spirito, gli occhi sempre puntati sul gioco della Provvidenza”. Ecco perché “può educare solo chi sa che cosa significa amare, chi tiene sempre presente la Divinità”.
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