Per fare qualsiasi lavoro servono la competenza, le capacità e una certa predisposizione. Per alcune professioni però tutto ciò non basta. Per fare l’insegnante per esempio, per farlo bene, è necessaria una vocazione, un amore per il destino dei bambini o ragazzi che si ha di fronte. Perché o li si vede come “teste da riempire”, di nozioni utili certo, di conoscenze che nella vita senz’altro serviranno, o li si osserva con lo struggimento di chi ha a cuore il loro futuro e si pone la domanda “che ne sarà di loro?”.



Un insegnante così è stato il professor Paolo Merlo, un’istituzione per la Scuola media “Andrea Mandelli” di Milano.

Il professor Merlo, oggi in pensione, ha scritto un libro sulla sua esperienza in quella scuola. Diciassette anni pieni di vita, di attività, di sorprese, di legami. Il libro è un racconto del periodo vissuto da docente alla Mandelli attraverso le attività più significative svolte con gli studenti. Sono centinaia i ragazzi che si ritroveranno nelle pagine del libro, non solo quelli del quartiere Dergano di Milano, dove ha sede la scuola, ma di mezza città e di alcuni comuni dell’hinterland, perché negli anni la proposta educativa della scuola dedicata ad Andrea Mandelli, giovane studente morto per un tumore osseo a 19 anni nel 1999, si è fatta sempre più solida e interessante ed ha attratto un numero crescente di studenti.



Il libro si intitola appunto “…Che ne sarà di loro?” La bellezza di conoscere facendo (Mimep-Docete, 2022). Ecco, quel “facendo” è il tratto distintivo delle esperienze narrate. Perché Paolo Merlo non si è “limitato” a spiegare la matematica, ma l’ha applicata alla realtà. Che si sia trattato di costruire in classe il modellino del ponte di Paderno d’Adda o di osservare i fenomeni dei colori del cielo e dell’arcobaleno, di realizzare il plastico di Grigna, Grignetta e Resegone o partire dal numero aureo per arrivare a ricreare in miniatura il Partenone di Atene, il prof Merlo, come ha scritto una sua allieva, “mi ha insegnato a guardare e a scoprire come trovare la matematica nella vita reale di ogni giorno”. Perché il segreto sta lì, sta nel metodo, quel metodo che Paolo Merlo sa di aver lasciato in eredità alla sua scuola, e che ha sempre cercato di applicare con un’attenzione e un’umanità grandi, dimostrando che la matematica non è una teoria di formule più o meno affascinanti o astruse ma ciò che contribuisce a dare forma al reale. E quando gli studenti percepiscono la concretezza di ciò che trasmetti, quando “trovano davanti a loro – come Merlo scrive – qualcuno in cui intravedono la possibilità di una strada adeguata, sono disposti a mettersi in gioco senza paura di essere giudicati”.



Spesso nel libro il prof Merlo scrive che più che giudicare occorre appassionare i ragazzi a ciò che fanno. E ne dà esempi concreti. Semmai un giudizio lo dà su di sé. Dimostrando che l’avventura in una classe non è solo quella che vivono i ragazzi ma anche i loro professori. Anche loro imparano. Per esempio a non dare per scontato che dopo 30 o 40 anni di insegnamento basti inserire il pilota automatico perché “pian piano gli anni aumentano e così pure il divario di età con i ragazzi”. O imparano a lavorare insieme agli altri insegnanti perché sarà pur vero che un prof in classe ci sta da solo e la tentazione – lui la confessa – è quella dell’individualismo, ma “l’unità ideale… il dialogo sincero con i colleghi… è apprezzato dai ragazzi e per loro è sostegno per un cammino in cui vedono in atto qualcosa che possono vivere anche loro”.

Insegnare deriva da insigno, “lasciare un segno”. Ecco, il prof Merlo ne ha lasciati tanti alla “Mandelli”, fra gli studenti e fra i colleghi.

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