Da quando insegno, i giorni dopo Ferragosto rappresentano una specie di limite ideale oltre il quale inizio a pensare più intensamente all’anno scolastico che ho davanti. Non nel senso di programmare chissà cosa. Non ho mai digerito molto le dovute pianificazioni didattiche preventive, perché non si può ragionare a vuoto o dando per scontata la realtà dei ragazzi che ti troverai davanti a settembre, fossero anche quelli che pensi di conoscere.



No, nei giorni di ferie restanti mi confronto innanzitutto con il desiderio di comprendere cosa c’entra il lavoro che faccio con il bene mio e dei miei studenti. Riparto dai fondamentali, insomma. Con l’avanzare degli anni questo discernimento si è reso indispensabile, perché bisogna fronteggiare una tentazione che si fa sempre più aggressiva: pensare che avendo lavorato a lungo sia giusto tenersi stretta gelosamente una piccola parte di sé e iniziare a dare di meno, preservandosi per il tempo che ancora resta.



Un inganno, lo so, ma si sa che la forza del male sta nel presentarsi con le forme seducenti di una possibilità che arreca soddisfazione, promettendo di risolvere un problema che a questo punto della vita si presenta con le paurose fattezze dell’inevitabile limite psicofisico, tanto che si può considerare l’idea di mollare. Tuttavia, per un cristiano, la vecchiaia potrebbe essere piuttosto un’occasione “positiva” per riscoprire ciò che conta veramente, una crisi non meno importante di quella giovanile.

Infatti, come ha detto il Papa durante la Gmg 2023: “la crisi nelle persone sono situazioni della vita, eventi, problemi organici, malumore o buonumore. Ti fa cribar, ossia setacciare, e tu devi scegliere. Una vita senza crisi è una vita asettica”. Ma, aggiunge subito dopo Francesco, “neanche rimanere nella crisi è un bene, perché è un suicidio continuo”.



Proprio per il fatto che giovani e anziani vivono un delicato frangente critico e per questo rappresentano i “due scarti” della nostra società efficientista, Papa Francesco propone da tempo un’alleanza intergenerazionale tra di loro. Nel messaggio per la III Giornata dei nonni e degli anziani che lui stesso ha voluto istituire quando eravamo ancora nell’emergenza pandemica, Francesco scrive: “l’amicizia di una persona anziana aiuta il giovane a non appiattire la vita sul presente e a ricordarsi che non tutto dipende dalle sue capacità. Per i più anziani, invece, la presenza di un giovane apre alla speranza che quanto hanno vissuto non vada perduto e che i loro sogni si realizzino”.

Il luogo dell’educazione è una relazione esperienziale tra chi ha speso la sua vita per un ideale (un sogno, lo chiama Francesco) con la speranza di vederlo realizzare e chi offre la sua energia per raccogliere il testimone e riprendere quel “sogno” per costruire un mondo più umano secondo la sua libera creatività e i suoi talenti. L’educazione è un fatto familiare insomma, da “villaggio”, non per tecnici esperti che addestrano giovani energie produttive alla logica individualistica del tornaconto.

Mi sembra di intravedere in questa visione una prima risposta importante alla questione posta in apertura. Se infatti il giovane e l’adulto hanno bisogno reciprocamente l’uno dell’altro, ovviamente nei termini che ci indica il Papa, allora val la pena di iniziare un nuovo anno scolastico pienamente, mettendomi in rapporto con gli studenti proprio così come io sono ora, proponendo loro il mio impegno con la vita in termini di conoscenze, storia, esperienze e ideali. I giovani hanno bisogno anche di “nonni come noi” – come ripete un mio caro amico insegnante in imminenza di pensionamento – e noi di loro.

Aggiungo brevemente due indicazioni del Papa che, nella loro semplicità, trovo belle e rivoluzionarie considerato lo stato della nostra scuola che, per dirla con Eliot, “avanza all’indietro, progressivamente” (ma in essa ci sono anche molte esperienze belle). Le traggo dal discorso di Papa Francesco alla cerimonia di accoglienza della Gmg 2023, ma non sono novità nel suo magistero.

La prima è che il primo passo di questo stare con i giovani consiste nel chiamarli per nome uno per uno, unici e irripetibili quali sono, perché quasi nessuno lo fa più veramente se non per sfruttarli. “Vorrei che ognuno di voi noti una cosa: tanti, oggi, sanno il tuo nome, ma non ti chiamano per nome. Il tuo nome infatti è noto, appare sui social, viene elaborato da algoritmi che gli associano gusti e preferenze. Tutto questo però non interpella la tua unicità, ma la tua utilità per le indagini di mercato”. Interpellare l’unicità dei nostri studenti: questa la prima bellissima consegna, “fare l’appello” veramente e ogni secondo.

La seconda, legata alla prima, è che l’unicità dei giovani si coglie maggiormente nella loro inquietudine, nelle loro domande, nelle loro osservazioni, anche quelle ribelli o controcorrente. Ribaltando la normale logica scolastica Denim per cui lo studente bravo è quello che non ha bisogno di chiedere mai, Francesco invita i giovani a rimanere inquieti domandando, perché “fare domande è giusto, anzi spesso è meglio che dare risposte, perché chi domanda resta ‘inquieto’ e l’inquietudine è il miglior rimedio all’abitudine, a quella normalità piatta che anestetizza l’anima”.

Ne consegue che il compito dell’adulto/insegnante è creare le condizioni favorevoli affinché la domanda venga sollecitata ed espressa da tutti. Papa Francesco è un oppositore accanito dell’educazione intesa come addomesticamento e indottrinamento. È piuttosto l’inquietudine la vera forza motrice della relazione educativa, anche a scuola, perché non c’è nulla che arriva al cuore della persona, dalla matematica alla religione, se non passa per la libertà accesa dall’inquietudine della domanda. L’alleanza adulti-giovani funziona se questi ultimi ereditano dai primi qualcosa che riconosce e accoglie la loro inquietudine come buona e presenta un’ipotesi conveniente, su cui poter scommettere la propria vita.

Tutto questo a patto che i primi inquieti siano gli insegnanti stessi, come disse il Papa a Roma nel 2014: “perché … i ragazzi capiscono, hanno ‘fiuto’, e sono attratti dai professori che hanno un pensiero aperto, ‘incompiuto’, che cercano un ‘di più’, e così contagiano questo atteggiamento agli studenti”. L’eredità che possiamo lasciare è questa: il metodo dell’inquietudine. Perciò, come disse Francesco in un Convegno Pastorale del 2017, “sfidiamoli [i giovani] più di quanto loro ci sfidano. Non lasciamo che la ‘vertigine’ la ricevano da altri, i quali non fanno che mettere a rischio la loro vita: diamogliela noi quella giusta”.

Mi sembra un ottimo programma non solo per ritornare a scuola, ma anche per “non rimanere mai tranquilli” (don Luigi Giussani, Meeting 1985) e vivere all’altezza del nostro cuore.

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