È diffusa non senza ragione l’opinione – fin quasi diventare un luogo comune – che dopo l’epidemia del coronavirus “nulla sarà come prima”. Questa convinzione vale anche, e forse soprattutto, per il mondo scolastico che nelle ultime settimane è stato sottoposto ad una vera e propria, imprevista, rivoluzione delle proprie prassi e consuetudini con il transito dalle normali lezioni in presenza ad attività didattiche svolte a distanza.



Esistono valutazioni diverse sulla qualità dei risultati finora raggiunti e si possono anche richiamare gli aspetti di debolezza che hanno accompagnato questa scuola casalinga improvvisata, in primo luogo gli effetti particolarmente negativi per le fasce di popolazione scolastica fragili per varie ragioni: povertà educativa e culturale, a rischio di abbandono e dispersione, con difficoltà di apprendimento che già nella normalità della vita quotidiana avevano (e hanno) bisogno di interventi ad hoc. Senza ignorare l’alto numero degli alunni che addirittura non hanno potuto fruirne con regolarità per mancanza del pc in casa o insufficienza della rete.



Ma bisogna anche riconoscere che in via generale gli insegnanti – spesso poco preparati nell’impiego delle tecnologie e pur con il limite talora di trasferire un po’ semplicisticamente la lezione in aula nelle comunicazioni via web – hanno saputo dare una grande prova di passione educativa e di responsabilità professionale, mantenendo vivo il rapporto con gli allievi mediante tutte le forme possibili per non lasciarne dietro nemmeno uno. La stragrande maggioranza di maestri e professori si è dimostrata all’altezza del loro compito di educatori – e non solo di erogatori di nozioni e di forgiatori di competenze – molto di più delle organizzazioni sindacali che, come è noto, hanno eccepito sugli obblighi di servizio nelle lezioni a distanza. 



Non sappiamo fino a quando questa inedita forma di homeschooling guidata contestualmente da insegnanti e genitori resterà attiva, ma in ogni caso sarà un’esperienza destinata ad incidere non solo nelle rispettive biografie, ma di cui tenere conto sugli assetti a venire nella scuola italiana. Già in proposito si sono levate numerose voci con relative e specifiche richieste che individuano nella scuola digitale la prossima riforma salvifica dell’istruzione italiana. Richieste e proposte forse non del tutto disinteressate, se si pensa ai cospicui investimenti economici necessari per la fornitura delle strutture necessarie e la formazione degli insegnanti per realizzarla in modo appropriato.

A costoro va ricordato che le tecnologie digitali rappresentano senza dubbio uno strumento importante a sostegno dell’apprendimento, ma non possono sostituire la vita della scuola nella sua molteplicità di spazi (aule, laboratori, palestre, ecc.), di tempi di lavoro, di relazioni interpersonali, di collaborazione tra pari e di confronto di idee in presenza di adulti esperti.

Le varie possibili soluzioni escogitate per la scuola digitale non possono insomma diventare la “nuova scuola” in grado di risolvere annose questioni che si trascinano da molto tempo e rispetto a cui finora la politica (quella con la P maiuscola) non ha saputo dare risposte convincenti. Un conto è guardare alle opportunità del digitale come a uno strumento utile e un conto è immaginarlo espressione di una verità ontologica.

Già, perché la scuola dopo l’emergenza continuerà ad essere la scuola con le difficoltà che tutti conosciamo: esiti difformi e squilibrati nelle diverse aree dell’Italia, molta dispersione, scarsi contatti con il mondo del lavoro, alta età media degli insegnanti, precariato cronico, apprendimenti schiacciati sulle competenze, bullismo, scuole scadenti in cerca di aiuto e molto altro ancora.

Sarà perciò necessario aprire un ampio dibattito per riportare la scuola al centro dell’interesse nazionale e interrogarsi – lo diciamo in modo un po’ semplificato – sul senso da attribuirle: se concepirla solo in ragione della spendibilità degli apprendimenti acquisiti e dunque puntando tutto sulle competenze cognitive, oppure se guardarla come a un’occasione per formare anche altre qualità della persona (per esempio mediante il potenziamento delle soft skills o il ricorso al service learning) e avviarla a esperienze che non si monetizzano, ma qualificano la vita come “vita umana”, come dimostrano le storie di quanti in queste settimane hanno lavorato per gli altri con abnegazione, senso di solidarietà, gratuitamente.

Di fronte alla opinabilità dei “valori” come quelli appena accennati molti storcono il naso afflitti ancora dai pregiudizi che una certa cultura libertaria e individualista ha messo in circolo nei decenni passati. Ma la realtà è più forte di ogni preconcetto. Saprà la scuola di domani tenerne conto?

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