Questo nuovo anno scolastico era iniziato all’insegna del dubbio sulla ripresa possibile e poi il clima ha girato verso una bella baldanza desiderosa di ritornare in presenza, riprendere i contatti, tornare quasi a una normalità. Gli insegnanti si sono accesi e mossi con la loro tipica creatività, tanto che si potrebbe usare, per descrivere quel momento, la nota frase di Pavese: “L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante”.



È stato notevole vedere come il mondo della scuola si sia attivato per cercare nuovi modi per vivere l’esperienza educativa assieme e in sicurezza coi ragazzi. Questo ci ha fatto vedere quanto avessimo davvero bisogno di ricominciare e quanto questo sia legato alla nostra natura, al nostro modo d’essere: noi vogliamo incominciare sempre, la nostra vita è questo inizio tutti i giorni.



Poi c’è stato l’aggravarsi della situazione e allora alla baldanza ha fatto posto la paura, la fatica… Ciononostante non ci si è mai fermati, si è sempre cercato, e lo si fa tuttora, di trovare mille strade per poter fare scuola: quindi, più che mai ora capiamo che “vivere è cominciare sempre in ogni istante”.

C’è una cosa che ben si coglie in questo periodo che “sposta costantemente l’asticella”.  La duttilità e la resilienza richieste non tengono da sole nel tempo; c’è bisogno di una prospettiva dentro cui collocarle. Come si fa ad accettare di cambiare continuamente progetti e programmi, accettare fatiche e modalità particolari senza finire per collassare su sé stessi? Abbiamo bisogno di chiederci con Gauguin: “Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo?”.



A me pare che il titolo di questa celebre opera del pittore sia la sezione aurea del tempo, di ogni istante del tempo. Perché mi sembra che di fronte all’ennesimo imprevisto che destabilizza, se non si ha chiaro “Chi siamo? Dove vogliamo andare o dove stiamo andando?”, alla fine, non si può che sbandare e rinunciare. Ma Gauguin mirabilmente mette in mezzo un’altra domanda alle due elencate: “Da dove veniamo?” Questa è una domanda legata alla propria identità individuale e sociale e costituisce una valida bussola per orientare le nostre azioni in un presente così magmatico.

Anche noi a scuola come persone e come collegio docenti ci siamo accorti che è imprescindibile recuperare il “già saputo”, il “dato per scontato”, e ci siamo re-interrogati sull’identità della nostra vocazione di insegnanti della nostra scuola paritaria. Ai ragazzi daremo come sempre il frutto di queste domande e lo offriremo, non tanto coi discorsi, ma col nostro vivere la quotidianità con loro.

Oltre alle risposte personali che ciascuno ha dato e sta dando, il lavoro collegiale si è indirizzato a ri-scoprire la storia che ha generato l’opera che tutti i giorni partecipiamo a costruire. Perché scuola Frassati? Come mai portiamo il nome di un Beato? Abbiamo invitato le “madri fondatrici”, ovverosia coloro che nel lontano 1984 hanno iniziato una scuola per i loro figli e ci siamo fatti ri-dire cosa le aveva mosse per generare un’opera così.

Ci ha colpito questo. Per un bene visto e ricevuto per sé si è generata un’azione sociale, per il bene comune: fare qualcosa anche per gli altri. Che strano: ormai siamo in un’epoca individualista che non mira a generare qualcosa per altri, lo fa solo per sé. Loro no. Ci ha impressionato il senso di responsabilità di queste donne che, oltre al bene dei propri figli, hanno pensato che ciò che hanno ricevuto nella vita come dono può essere per tutti. Un bene sociale e diremmo anche civile e culturale. Da qui si è poi capito perché Pier Giorgio Frassati: lo stesso amore per gli altri, la stessa passione di darsi per un ideale vissuto.

Allora iniziare così, e riprendere questo nuovo punto di consapevolezza ad ogni tornante della pandemia, gonfia le vele, perché svela che, nonostante quello che dice il mainstream, c’è ancora una possibilità di investire e credere nel futuro e nel bene comune.

Ricominciare dopo e durante il Covid, col tasso di insicurezza che c’è nelle nostre vite su tutti i livelli, ha in questo modo un altro respiro, è il respiro di Pavese e di Frassati, che si accorgono come, nonostante chieda fatica, ricominciare in ogni circostanza sia davvero la cosa più bella; ora come nel 1984 a Seveso.

E perché è bello vivere, anche quando la vita prova con drammi o circostanze instabili? Perché vivere è riscoprire ogni giorno la propria identità: chi sono io quando dico il mio nome. Il lavoro sulla propria identità personale e sociale porta sempre una riscoperta di soddisfazione e di nutrimento per l’esistenza. Si potrebbe dire che di fronte ai problemi, interrogarsi con quelle domande fondamentali non tradisce mai, ma apre sempre a un bene nuovo, anche dentro alle fatiche. Per questo la nostra vocazione di insegnanti deve riaccorgersi di questo “essenziale” della sua natura. Siamo chiamati ad approfondire costantemente chi siamo, donando al mondo e a chi ci sta vicino l’esito della nostra ricerca.

Questo costruisce un popolo, lo nutre di una cosa di cui ora abbiamo tutti molta nostalgia e fame: la certezza che la realtà è positiva, è fatta per un bene – nonostante e dentro tutte le circostanze – e quindi possiamo avere speranza per il futuro. A questo servono le testimonianze di uomini del passato come di quelli del presente: dare speranza agli uomini, sostenerla, non per uno sciocco o semplice ottimismo – che tanto si sgonfia come un palloncino poco dopo -, ma perché fondata su una ri-scoperta ultima: la realtà non tradisce. Fa fare fatiche certo, ma ultimamente non tradisce.

Questa non può essere una definizione, ma deve essere una sfida, una provocazione e una proposta. L’avventura educativa è il ring su cui si gioca. Chissà cosa scopriremo quest’anno se metteremo in comune tutte le nostre scoperte, chissà che non si generi nuovo “bene comune”.

Nel solco di questo lavoro noi professori stiamo diventando sempre più consapevoli di cosa voglia dire educare. Approfondire la nostra identità perché, certi della tradizione che abbiamo ricevuto, possiamo dare la nostra risposta generativa al mondo contemporaneo e far crescere nei ragazzi la loro autoconsapevolezza di figli, di uomini e di futuri padri. Questo è il nostro compito educativo, questo, come dice María Jesús Álava Reyes, vuol dire “educare persone libere” cioè consapevoli di sé, del mondo in cui vivono, intelligenti nel modo di leggere i segni che la realtà mostra e quindi capaci di decidere e di scegliere per il bene proprio e altrui.

Auguriamoci che questo nuovo e complesso anno ci permetta di realizzare tutto ciò, per il bene nostro e di tutti i nostri ragazzi e genitori.

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