La prima metà di settembre assiste, come sempre, alla ripresa delle lezioni, secondo calendari leggermente diversi di regione in regione, per quella che sembra essere ormai una delle pochissime, residuali concessioni alla leggendaria autonomia scolastica di cui si favoleggiava qualche anno fa; la gestione organizzativa, amministrativa e formativa della scuola è infatti sempre più centralistica, rigida, burocratizzata, con buona pace dei proclami e persino dei cambiamenti del colore al governo, dal rosso al giallo, dal verde all’azzurro al nero che sia. Come nella Russia degli zar e poi sovietica, senza soluzione di continuità, nessuna rivoluzione vera o posticcia sembra scalfire lo statalismo lento, improduttivo, perennemente in ritardo coi tempi che caratterizza il baraccone scolastico.
Se ne sono accorti quest’anno gli insegnanti ancora non in ruolo e, attraverso il caos delle loro assunzioni per incarichi a tempo e/o immissioni in ruolo, tutto il sistema scolastico. La carenza di insegnanti a inizio anno, i buchi nell’orario non ancora coperto dal servizio, la lentezza nell’avvicendamento che dovrebbe coprire i vuoti didattici creatisi soprattutto coi pensionamenti costituisce, si sa, un male eterno della scuola italiana.
Diciamo che si tratta di una malattia endemica anche se, a dir la verità, è un problema misterioso. Non si capisce cosa ci voglia a risolverlo a inizio estate, appena finito l’anno scolastico precedente: le iscrizioni degli studenti all’anno successivo si conoscono fin dall’inverno, poiché scadono a febbraio, per cui si sa bene quante classi si formeranno e dove, e i trasferimenti estivi cambiano quasi in nulla gli assetti; graduatorie di insegnanti ne abbiamo dalla preistoria, di tutti i tipi, con una fantasia che rasenta il genio del male; anche le domande di trasferimento degli insegnanti scadono in inverno, quindi si conoscono ben in anticipo richieste di spostamenti e pensionamenti in arrivo. Eppure ci si trova sempre in autunno con classi scoperte, cattedre vacanti, incertezza imperante. Che ci vuole? Forse qualcuno che lavori bene, forse qualcuno che diriga conoscendo la realtà… L’impressione è che sia esattamente ciò che manca, e che viene sempre meno man mano che ci si alza nella scala della dirigenza scolastica.
Quest’anno poi il caos è aggravato dal fatto che ci si trova a metà di un concorso, anch’esso strano e difficile da spiegare. Traducendo per chi, giustamente, non è avvezzo all’intricato linguaggio burocratico dello Stato e della scuola, si tratta di questo: si sono prima calcolati quanti posti di docenza mancassero; si è indetto il concorso a cui hanno aderito migliaia di candidati, moltissimi dei quali hanno superato lo scritto e sono in attesa dell’orale (guarda un po’, proprio a cavallo tra un anno scolastico e l’altro), che deciderà la graduatoria; otterranno il posto solo i docenti in numero equivalente ai posti mancanti; gli altri, anche se avranno superato brillantemente l’orale, non entreranno in nessuna graduatoria: sarà come se non avessero mai dato il concorso.
L’occhio inesperto obietterà che è giusto, in fondo perché assumere qualcuno per posti inesistenti? Ma, come dicono i poeti, il tempo passa, le cose cambiano, la realtà muta, per cui, quando finalmente qualcuno si sarà deciso a interrogare i poveri candidati, altri posti, a decine, si saranno resi disponibili e saremo punto e a capo con un’inadeguata dotazione organica. Intanto, poi, molti di questi candidati avranno accettato supplenze temporanee, magari annuali, e al momento in cui entreranno in ruolo lasceranno il posto che avevano accettato per andare in quello giustamente più sicuro. Oppure rinunceranno perché il posto l’avranno ottenuto a mille chilometri da casa e di nuovo ripartirà la giostra delle assegnazioni. Figuriamoci dove andrà a finire la continuità didattica, la sicurezza per i ragazzi di avere un preciso insegnante, precisi riferimenti educativi, tranquillità e linearità del lavoro.
Al caos organizzativo di una scuola gestita nel modo peggiore possibile (non da adesso, da decenni) si aggiunge il caos culturale. Pochi sanno che non si sa mai come formare gli insegnanti, ad esempio. I temi su cui si dovrebbe lavorare sono da anni sempre gli stessi, perpetuamente irrisolti, annodati su alcune parole-mantra che ormai girano a vuoto come un motore con la cinghia di trasmissione rotta, tipo: inclusione, innovazione, tecnologia, didattica cooperativa (li ho scritti in italiano, ma al ministero molti di questi titoli li mettono in circolare, chissà perché, in inglese). E poi i problemi rimangono sempre lì, peggiorando di anno in anno.
Anche nella Russia dei secoli passati esisteva il problema endemico della servitù della gleba, per cui i contadini, la stragrande maggioranza della popolazione, erano possedimento legato alla terra di alcuni nobili proprietari terrieri. Già dall’epoca dell’Illuminismo gli zar capirono di dover risolvere il problema e ognuno di loro proponeva leggi e riforme, aumentava norme e burocrazia, ma le condizioni miserabili del popolo rimanevano lì. Arrivò la rivoluzione bolscevica del 1917 e chissà se neppure quella abbia risolto qualcosa. Pare di no.
Il clima nella scuola è lo stesso: incarichi e problemi apparentemente inaffrontabili, rigidità e caos della struttura dirigente, solitudine e incertezza nel lavoro quotidiano. Lo sappiamo bene che la scuola si regge sulla buona volontà di qualche insegnante appassionato del proprio lavoro, che spesso deve remare contro il sistema, sulla medietà grigia della maggioranza degli altri, sul burn-out di un numero crescente di chi abbandona un lavoro che non riesce più a fare. Forse ci vorrebbe una rivoluzione; ma, anche stavolta, non è detto che sarebbe meglio.
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