Nel percorso di religione di quest’anno siamo partiti da una famosa frase di Italo Calvino ne Le città invisibili: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
La parola “inferno” inizialmente ha evocato lo studio della Commedia, ma lentamente abbiamo capito che l’inferno è qualcosa di profondamente legato alla vita, qualcosa che, anche nei personaggi raccontati da Dante, comincia nella nostra quotidianità, attraverso azioni, pensieri e spesso rimpianti.
Alla fine di un’ora in cui questo problema era emerso, una ragazza, piangendo, mi ha detto: “Prof, io non ho nessuno con cui parlare di queste cose; a nessuno interessa veramente”. È una delle ragazze più brave della classe, sempre disponibile con gli altri, a cui si può chiedere aiuto per qualsiasi aspetto della gestione del gruppo classe, eppure è sola.
Un’altra ex alunna, proprio in questi giorni, mi ha scritto: “Io continuo a essere schiava di questa solitudine… non ne posso più. Capirei se avessi scelto io di restare da sola… invece è capitato e basta, senza che io lo volessi, senza che me ne accorgessi”.
C’è una costante in quasi tutti gli interventi dei ragazzi, un filo rosso che li collega: la solitudine. Eppure, sono ragazzi che frequentano una classe, un gruppo sportivo, spesso anche un gruppo religioso, insieme a tanti altri coetanei.
Nel dialogo in classe, si capisce che molti ragazzi vivono una solitudine priva di una condivisione quotidiana della vita, dell’incapacità di comunicare le incertezze, le fragilità e le preoccupazioni rispetto al futuro. Lentamente, molti di loro si bloccano nei rapporti, senza riuscire a togliere quella maschera indossata da troppo tempo, vivendo con la paura di apparire fragili e inadeguati alla vita.
Tutto questo può sembrare assurdo rispetto a quello che accadrà tra qualche giorno, in occasione della Colletta alimentare, quando davanti ai supermercati troveremo decine di migliaia di ragazzi impegnati a raccogliere beni alimentari per i più poveri. Un’iniziativa che stupisce per la partecipazione di tantissimi giovani.
Per capire allora cosa accade a questi ragazzi, ci può aiutare don Luigi Giussani, che ne Il senso religioso, al capitolo 8, parla proprio di solitudine: “La solitudine, infatti, non è essere da solo, ma è l’assenza di un significato. Si può essere in mezzo a milioni di persone ed essere soli come cani, se quelle presenze non hanno significato”.
La vera differenza sta nella proposta educativa di alcuni adulti che coinvolge questi ragazzi. Lo slogan della Colletta è proprio un chiaro esempio di come si debbano educare i giovani: “Condividere i bisogni per condividere il senso della vita”. Il problema non sono progetti all’interno della scuola, né istruzioni su come, genericamente, si dovrebbero trattare le persone o le istituzioni (educazione civica), ma semplicemente il desiderio degli adulti di condividere il senso della loro vita passando anche del tempo insieme, gratuitamente e per uno scopo più grande.
Quest’anno ho proposto a tutti i miei alunni la Colletta avendo in mente questo: non semplicemente un gesto di carità, ma un gesto per condividere con loro il senso della mia vita, l’unica possibilità per noi adulti di smuovere una generazione che vive ormai nell’era della solitudine.
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