Al Meeting di Rimini quest’anno abbiamo l’opportunità di presentare l’esperienza dei Colloqui Fiorentini e lo faremo attraverso la testimonianza di chi i Colloqui li ha vissuti e li vive tutt’ora: il fondatore del convegno, Gilberto Baroni, racconterà come sono nati e qual è l’intenzione che da sempre li anima; il prof. Tommaso Pagni Fedi racconterà il suo incontro con i Colloqui, da studente, e come questo convegno gli abbia cambiato la vita, portandolo a scegliere la professione di insegnante e non solo; Michele Spissu e Sara Riva parleranno della loro esperienza dei Colloqui da studenti appena maturati; chi scrive proverà a comunicare sinteticamente l’incontro con l’autore protagonista dell’edizione 2022, Dino Buzzati.
Nel dialogo e nel lavoro continuo del comitato didattico dei Colloqui, in questi mesi abbiamo vissuto la vicenda di molti fra noi insegnanti che hanno provato (e nella maggior parte passato) i concorsi per l’abilitazione all’insegnamento. Mai come in questa occasione è stato facile fare un confronto fra cosa il ministero intende per insegnamento e cosa emerge dall’esperienza dei Colloqui.
Provo a spiegarmi, partendo dall’immagine di insegnante che i Colloqui plasmano alla luce del lavoro svolto con gli studenti per prepararne la partecipazione. Non intendo, dunque, partire da una teoria dell’insegnamento, ma lasciare che l’esperienza che ci accade da ventidue anni faccia emergere le caratteristiche elementari e decisive della nostra professione.
Lo scopo dell’insegnamento è l’incontro con l’autore. Quando leggo in classe un testo con gli studenti, il mio unico scopo è che possiamo fare insieme l’esperienza dell’incontro con l’autore per come lui è, per come emerge, per come si impone alla nostra coscienza, attraverso le sue pagine. Il nostro padre e maestro, Luigi Giussani, ci ha sempre insegnato che il metodo è imposto dall’oggetto. L’oggetto (o per meglio dire il soggetto attivo) della nostra professione è l’autore. Allora occorre farsi dire da lui, ascoltare il suo dirsi, facendo silenzio, quello spazio di libertà in noi, senza del quale niente entra e permane nella coscienza. Per fare questo occorre comprendere bene il testo. Ora, per comprendere davvero il testo, io devo innanzitutto saper leggere, devo approfondire la conoscenza del suo lessico, saper interpretarlo, cogliere le sfumature, le inferenze con altre opere dello stesso autore (quindi devo leggere varie opere dell’autore, possibilmente in modo integrale) o di altri autori letti; devo saper comprendere come una certa opera sia illuminata dal contesto storico in cui è nata, etc.
Poi, per poter partecipare al convegno, dovrò scrivere una tesina in gruppo con i miei compagni, quindi dovrò saper scrivere correttamente in italiano, saper scegliere dal mio bagaglio lessicale le parole giuste, sapermi confrontare col pensiero dei miei compagni, identificare una chiave di lettura dell’autore, svilupparla ed argomentarla.
Tutte queste competenze sono esattamente quelle che la scuola mette al centro dei suoi obiettivi, come ci raccontano quelli che hanno studiato per preparare i concorsi. C’è un solo problema: queste competenze statisticamente non vengono raggiunte quasi mai dagli studenti. Perché accade questo? Perché queste competenze si identificano a partire da ciò che gli studenti non sanno più fare. Si fa, cioè, un percorso in negativo. Gli studenti non sanno più riassumere un brano? Occorre che il docente abbia l’obiettivo di insegnare la sintesi. Gli studenti non sanno fare collegamenti? Obiettivo del docente sarà insegnare le inferenze. E così via in un processo sistematico di astrazione delle necessità, che vengono isolate e assolutizzate, per poi essere, in un futuro più utopistico che probabile, riassemblate insieme.
Noi dei Colloqui, invece, non le mettiamo affatto al centro del nostro obiettivo. Noi non sentiamo di insegnare perché i nostri studenti migliorino il loro lessico. Noi puntiamo sul valore sintetico della nostra professione: siamo tesi a vivere un’esperienza conoscitiva, che avviene solo nell’incontro con una persona (che è l’autore e che sono i mie studenti). Questa potente esperienza sintetica è messa in moto solo da un desiderio suscitato nel cuore e nella mente dello studente (e del docente innanzitutto). Dante, all’inizio del Convivio, citando Aristotele, dice che “tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere”. Usa questo verbo bellissimo: desiderano; e questo avverbio ancor più bello, naturalmente. È naturale nell’uomo desiderare di sapere le cose: cos’è il mondo, la vita, chi è lui stesso, cos’è la bellezza, cos’è il dolore, cos’è l’amore, se c’è e qual è il suo destino. E questo fanno gli autori: parlano di questo, hanno vissuto e scritto per incontrarci a questo livello e per nient’altro. Provate a dire ad una classe: “Oggi impariamo cosa sono le inferenze”. Poi provate a dire: “Oggi leggiamo Dino Buzzati, che ci parla di cos’è la bellezza, l’amore, il mistero della vita”. La conoscenza è un’esperienza sintetica ed estetica, perché è l’esperienza del significato. Questo si porta dietro e dentro tutte le competenze specifiche.
È solo un’immagine costruttivista dell’uomo che ci porta a pensare che la conoscenza sia una somma di saperi e competenze. La conoscenza è un’esperienza di significato di sé e del mondo, è l’intuizione del mio essere e della posizione che assume nel mondo, è una visione intuitiva e sintetica del mio esserci e del mio essere al mondo, che nasce proprio dal desiderio di scoprire chi io sia, grazie all’incontro con gli autori. Cioè è l’intuizione di un destino, del mio personale destino.
Le competenze dunque si sviluppano organicamente attorno al significato sperimentato. Questo mi insegnano i Colloqui Fiorentini.
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