“Noi non siamo macchine; se la scuola continuerà a ritenerci tali, buoni solo per compilare test a crocette relativi alla nostra preparazione, senza un minimo indizio di profondità, di ricerca di un qualsiasi significato, saremo sempre giustificati quando ce ne burleremo o, semplicemente, non la vivremo come un luogo importante per noi. Ma per fortuna c’è la letteratura! Senza Pavese, e Omero dietro di lui, tutte queste domande non sarebbero sorte in noi”.



Ancora un grido, ancora una rivolta contro il non senso, contro la mancanza di valorizzazione della propria personalità, della propria intelligenza, del proprio desiderio. Ancora una volta un grido contro la scuola.

Sono le parole che un gruppo di studenti ha voluto affidare alla tesina con cui partecipa alla XIX edizione dei Colloqui Fiorentini su Cesare Pavese. Ancora una volta. Riecheggiano infatti le parole di una studentessa dello scorso anno, già usate in un articolo per Il Sussidiario: “Ho sempre pensato che la scuola mi stesse annullando. Per questa ragione spesso l’ho profondamente odiata. Tante volte provo molta fatica a spegnere quella sveglia che suona quotidianamente alle sette del mattino per ricordarmi che tutto ricomincia, tutto si ripete, lo strazio e la fatica che mi bloccano, che mi fanno sospirare e a volte mi lasciano arresa”. Sembra di sentire Pavese, quando, con un’espressione indimenticabile, ha fissato per sempre in brevi parole la comune condizione del quotidiano, routinario soffocamento: “Il vivere che taglia le gambe”.



Questi gridi dei nostri studenti non possono lasciarci indifferenti. Se è vero che, come dice Dante in apertura del Convivio, riprendendo Aristotele, “Tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere”, come è possibile che proprio il luogo deputato al sapere, la scuola, sia tanto odiato? E come è possibile che continuiamo ad accettare tutto questo, senza neppure rilevare il problema? O magari pensando che sia tutta questione di soldi (perché sempre troppo pochi ne vengono destinati alla scuola)? O di strutture fatiscenti?

Va bene, sommergiamo di soldi la scuola, ripariamo tutti i tetti che non trattengono la pioggia, riempiamo di carta igienica i bagni e aumentiamo lo stipendio ai docenti. Bellissimo! Sempre per parafrasare Pavese: “Apoteosi. E poi?”. Avremo anche solo sfiorato il vero problema della scuola? Avremo minimamente intercettato il grido di questi ragazzi? Possiamo pensare che le loro parole siano dettate dalla preoccupazione per i termosifoni che spesso non funzionano nelle classi? E oggi poi cosa dovrebbero dire i nostri studenti?



Rinchiusi in casa da tre mesi, costretti, molti di loro, a fare video-lezioni sui cellulari per ore, tentati di lasciarsi andare anche fisicamente (ad alcuni studenti ho dovuto dire di togliersi il pigiama e vestirsi, perché anche se da casa, sempre di lezioni si trattava). Nella mia Regione, poi, il coronavirus non ha fatto molte vittime, per cui, per fortuna, nessuno dei miei studenti ha avuto parenti o cari coinvolti. E paradossalmente questo toglie anche la possibilità di vivere drammaticamente questo tempo, con una tensione conoscitiva provocata dalle circostanze, e tutto rischia di sprofondare nell’oblio del divano.

Ora sì che potrebbero lamentarsi alla grande e inventare scuse di ogni sorta. E infatti qualcuno lo fa, ma sono pochi. Che cosa pensate che chiederebbero gli studenti, se potessero, oggi? Di avere una connessione migliore? Io so cosa chiedono. I rappresentanti di una classe un giorno mi scrivono via mail e mi dicono che vorrebbero fare una video-lezione solo per poter fare l’appello. Sì, l’appello! Solo per potersi sentire chiamati per nome, come facevamo tutti i giorni a qualsiasi ora entrassi in classe. Ho chiesto loro perché e mi hanno detto che gli mancava come si sentivano in quel momento: voluti. Coronavirus o non coronavirus, il cuore degli studenti chiede sempre la stessa cosa: “Noi non siamo macchine; se la scuola continuerà a ritenerci tali…”.

Ancora con Pavese: il problema “non era il pane o il piacere o la cara salute”, cioè il problema non è se il luogo in cui i nostri studenti passano la loro giovinezza sia bello, pulito e rispetti le norme di sicurezza; e il problema non è neppure che oggi col Covid non ci possano più andare in quel luogo (molti studenti mi hanno scritto dicendo che incredibilmente hanno nostalgia della scuola), perché quando ci saranno tornati, ricominceranno a odiarla.

Il vero problema è: perché esiste questo luogo? E come fare a trovare una forma che corrisponda al motivo per cui deve esistere? È come se, questa volta parafrasando Buzzati, un bambino fosse messo su un treno ad alta velocità e si trovasse fra passeggeri che passano tutto il tempo a preoccuparsi per lui: ci stai comodo? Ti danno noia gli scossoni? L’aria condizionata è troppo fredda? Certo, è uno scandalo, non c’è neppure la connessione a internet! Vuoi lo snack? Oggi è in omaggio! E si arrabbiassero e litigassero, perché lo sciacquone del bagno non funziona o perché il rumore della locomotiva è fastidioso. Poi a un certo punto il bambino si guarda intorno e dice: “Grazie di tutto, ma io avrei una domanda. Ma questo treno dove va?”. Chi risponde a questa domanda?

Gli studenti facevano, certo, sciopero perché non funzionano i termosifoni, ma solo perché così potevano saltare la scuola. E saltavano la scuola, perché non ci trovavano nulla di interessante. E oggi, spesso, la scuola manca loro, perché meglio qualsiasi cosa, piuttosto che l’angosciante solitudine casalinga. Non è che il Covid ha reso d’improvviso la scuola bella e migliore! Gli studenti non chiedono un luogo attrezzato, chiedono un luogo che corrisponda alla loro urgenza di significato, che valorizzi la loro fame di capire se stessi e il mondo: “I Colloqui sono i giorni più attesi dell’anno, perché ogni volta io sento di aggiungere un pezzo di me a me stessa. Quando dialogo e mi confronto con i grandi autori, scopro che quelle parole le avevo già dentro, ma ne divento cosciente e ogni volta che esco dai Colloqui mi sento una persona diversa. È un lavoro che ti rimane per tutta la vita” (intervista a una partecipante alla XVIII edizione).

E accade questo, ai Colloqui, qualsiasi condizioni ci tocchi di vivere. Quest’anno il Covid-19 ci ha costretto a convertire il convegno in presenza a marzo in una serie di lezioni in streaming che si tengono il 21 e 22 maggio, e certamente questo modifica di molto la percezione dell’evento. Ma nulla di ciò che conta andrà perduto. Perché la forza dei Colloqui non dipende dalla forma in cui si strutturano, ma dal fatto che si pongono al livello del grido di quello studente. E questo è vero anche per la scuola.

Fermo restando che ancora nessuno ha inventato un modo più adatto della lezione in presenza, non è questa o il digitale a fare la differenza, ma cosa accade durante la lezione: se le parole, i gesti, gli sguardi, la metodologia, gli strumenti didattici, gli argomenti scelti dal docente, la modalità di affronto della materia, fino al modo in cui fa l’appello, parlano a quella promessa di significato profondo che abita il cuore dei nostri studenti, oppure servono solo a fornire un corretto servizio di istruzione.