Viviamo in tempi paradossali, ma il dibattito sulla funzione e l’utilità, e in definitiva sulla necessità, della scuola ha radici profonde. Agli inizi del Novecento Giovanni Papini, in un famoso pamphlet polemico e provocatorio intitolato Chiudiamo le scuole, sosteneva: “Noi sappiamo con assoluta certezza che la civiltà non è venuta fuor dalle scuole e che le scuole intristiscono gli animi invece di sollevarli e che le scoperte decisive della scienza non son nate dall’insegnamento pubblico ma dalla ricerca solitaria disinteressata e magari pazzesca di uomini che spesso non erano stati a scuola o non v’insegnavano”.
Qualcuno, con cinico realismo, ha risposto a Papini sostenendo che, storicamente, la scuola non nasce per la ricerca, la scoperta, la conoscenza; ma per il controllo sociale, per la fabbrica del consenso, per ospitare i figli di chi, nella società industriale, deve recarsi al lavoro…
L’esito di questa riflessione è risultato il medesimo: Chiudiamo le scuole, per Papini; Descolarizzare la società, per Ivan Illich.
Il dibattito teorico su questo tema oggi appare forse sopito, ma evidente risulta la crisi dell’istituzione scolastica nel pensiero comune. “La scuola è inutile, perché non forma alla vita”. “La scuola è inutile perché non realizza quella che dovrebbe essere la sua funzione principale, cioè far acquisire conoscenze, istruire”.
Le critiche alla scuola – e l’accusa di essere venuta meno alla sua funzione – arrivano dal mondo del lavoro, dalla società, dalla famiglia. “Tutto quello che so l’ho imparato sul lavoro, non a scuola”. “Oggi si impara più da internet”. Nell’era matura di internet in cui l’accesso alle informazioni può avvenire in maniera diretta, senza mediazioni, da casa, è ancora utile la scuola, anche come luogo? Serve, la scuola, se tutto ciò che insegna posso trovarlo su YouTube? Serve, la scuola, quando quello che mi chiede il mondo del lavoro, la scuola non me lo insegna perché le manca il rapporto con il mondo reale?
Nel mondo della definizione a 4K la scuola continua a usare il gesso e la lavagna; nel mondo dei milioni di colori, continua a usare uno “schermo” in bianco e nero. Inutile forse, inattuale sicuramente, secondo questo punto di vista.
E in più, a tirare il colpo (definitivo?), le uscite dei nuovi idoli delle presenti generazioni… La giovanissima youtuber, influencer con più di 500mila follower, che annuncia sul suo canale che abbandona la scuola. In effetti, a lei non serve… Come non serve ai calciatori, ai cantanti, ai social guru, agli influencer, alle stripper, ai personal trainer della finanza che ti insegnano a guadagnare senza lavorare…
La linea d’ombra è un romanzo di Joseph Conrad. Racconta il primo incarico come capitano di un giovane che sta entrando nella vita. Durante il viaggio scoppia un’epidemia che fa ammalare tutti i marinai, e la situazione è aggravata dalla bonaccia che impedisce alla nave di proseguire il suo viaggio. Nell’immobilità, autentica e metaforica, il giovane capitano, carico di energia e di voglia di fare, trova la forza di resistere a queste avversità e varcare la linea d’ombra, cioè il confine tra giovinezza e maturità, il momento in cui si diventa adulti e si assumono le proprie responsabilità. La forzata immobilità scatena un movimento di maturazione. Un paradosso, quasi.
Il miracolo segreto è un racconto di Jorge Luis Borges. Uno scrittore condannato a morte parla con il suo Dio la notte prima dell’esecuzione, e gli chiede una grazia: “domani morirò. Ma se mai sono esistito, se mai hai voluto realmente che io esistessi, io esisto come autore di quest’opera che ho iniziato e ancora non ho terminato. Concedimi di finirla prima di morire”. E all’indomani, mentre la pallottola del plotone di esecuzione viaggia verso il condannato, il tempo si ferma. L’istante si blocca, l’attimo si gela, e in quella immobilità lo scrittore si ritrova a godere di un anno di tempo per finire la sua opera. Che risulterà un capolavoro, anche se non lo saprà mai nessuno, come nessuno saprà del miracolo segreto concessogli da Dio. Un prodigio di cui nessuno può accorgersi. Paradossale.
In questi due testi letterari si colloca un’idea di scuola, e della sua funzione.
La scuola è il luogo in cui i nostri ragazzi imparano ad assumersi le loro responsabilità: immobili, in attesa di una parola chiara su un esame di Stato che rappresenta l’ultimo rito di iniziazione rimasto alla nostra società, i nostri giovani continuano a dover fare i conti con questi adulti che non trasmettono loro una immagine chiara di futuro. Eppure tra i nostri alunni ci sono giovani capitani che stanno attraversando la linea d’ombra, assumendo su di sé la responsabilità del loro percorso scolastico senza che agiscano più di tanto i tradizionali spauracchi: le cattive valutazioni, le sgridate degli insegnanti, la paura di un esito negativo… Non è il numero delle prove che rende o meno significativo un esame. La scuola è tutto tranne i voti che mette. Paradossalmente. La scuola è discorso, non numero. La scuola è arte della vita, se fa bene il suo.
E consente il miracolo segreto, di cui pochi si accorgono, della maturazione, della crescita, del “senso”. Dare significato a un’esistenza. Far realizzare i talenti. Guidare a scoprire quale bellezza salverà il mondo. Introdurre alla realtà totale. Parrà poco. Di fatto, e per la verità, non tutte le scuole ci riescono.
E allora non ci resta che continuare il nostro lavoro, un paradosso dopo l’altro, consapevoli di un ruolo, di un compito, che è “missione”, e interpretando umilmente uno scopo altissimo: costruire giorno dopo giorno una scuola che è utile, serve, e ha senso, perché prepara alla vita e alla realtà, all’affascinante e misteriosa realtà.
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