“Domanda: Se potesse dare un consiglio alla classe docente di oggi, cosa indicherebbe? Risposta: Cominciare a combattere apertamente tutto ciò che in cuor loro riconoscono come offensivo, inutile, frustrante, senza avere il coraggio di dirlo. Non compilare le scartoffie superflue, non andare alle riunioni che fanno perdere tempo, isolare i dirigenti che si prestano alla distruzione della scuola e all’umiliazione degli insegnanti”.
Le parole pesanti che Alessandro Barbero ha utilizzato in una recente intervista rilasciata alla rivista Oggi Scuola entrano con prepotenza in una delle piaghe principali dell’attuale sistema d’istruzione e che chiameremmo “burocrazia didattica”. Ho scritto “chiameremmo”, al condizionale, ben sapendo che si tratta di un ossimoro.
La didattica, infatti, nulla ha a che fare con la burocrazia, così come quest’ultima non sa nemmeno dove stia di casa la didattica. Il pungente intervento del docente universitario piemontese, vera e propria star della televisione (nella quale ha il merito di aver sdoganato la storia da disciplina per pochi a materia per tutti), ha anticipato di pochi giorni tanto la fatidica scadenza degli scrutini legati al termine del primo quadrimestre, quanto il previsto e prevedibile rituale delle dichiarazioni ministeriali in fatto di esami di maturità.
Sull’argomento è molto bene intervenuta di recente sul Sussidiario Luisa Ribolzi. Mi limito perciò a sottolineare che scrutini e dichiarazioni sono accomunati dal fil rouge della più totale inutilità. Scartoffie, appunto. Obblighi di legge, certo, ma scartoffie. Nella loro grigia liturgia, gli scrutini non fanno altro che anticipare nella quasi totalità dei casi un esame di Stato quanto mai stanco, troppo simili gli uni e l’altro a una maschera della commedia pirandelliana, un “così è se vi pare” in cui ciascuno recita il ruolo che il destino o il caso gli ha offerto (l’allievo, il genitore, il docente, il dirigente, persino il personale amministrativo e ausiliare) ben sapendo che “non è una cosa seria” e che dietro la serietà dell’apparenza sta in agguato la falsità della sostanza.
In tempi di didattica a distanza (integrata, si aggiunge ufficialmente dallo scorso settembre: ma integrata da cosa?), gli studenti sono passati dal cercare rifugio sotto il banco per sottrarsi all’interrogazione (pratica tanto antica quanto ingenua) al nascondersi dietro il video nero del pc adducendo generici “problemi di linea”; gli insegnanti fingono di non sapere che tutto ciò non risponde al vero o, se invece lo è (come accade spesso), che la lezione online non si può nemmeno da lontano paragonare a quella in presenza (meglio: lo sanno perfettamente, ma in fondo lavorare da casa, pantofole ai piedi e fornelli a portata di mano sono aspetti che offrono i loro vantaggi); i dirigenti rappresentano i terminali del ministero, devono garantire ordine e disciplina e non si sognano nemmeno di sgarrare agli ordini ricevuti (dei quali, peraltro, si lamentano spesso anche a voce alta); con l’assenza dei ragazzi dalle aule, i bidelli non hanno l’assillo di tenerle pulite perché pulite lo sono da tempo, per cui può anche andar bene così.
Gli scrutini di metà anno si devono fare da remoto per evitare i contagi (allora perché docenti e discenti, laddove possono, fanno lezione ogni mattina stipati in aule di venticinque e trenta persone, senza distanziamento e con le finestre chiuse per il freddo?), quelli conclusivi saranno una replica che anticiperà gli esami ai quali la ministra Azzolina ha fornito pochi giorni or sono un involontario motivo di comicità: “Alla maturità” pare abbia detto “quest’anno si potrà bocciare”.
Ohibò, notizia straordinaria, “fermate le macchine” si diceva una volta nelle tipografie dei giornali pronti ad andare in stampa. Come sarebbe che “quest’anno si potrà bocciare?”. Significa che in passato era vietato? E se non lo era, perché rimarcarlo? Solo nel tentativo di ridare verginità a una scuola che è ormai l’ombra di se stessa?
Ma se lo sanno tutti che da anni e anni l’ammissione agli esami di terza media e di maturità e le prove che ne conseguono fanno registrare percentuali di ammessi e promossi che farebbero arrossire persino i dittatori di ogni colore all’apertura delle urne!
Urge, a questo punto, la domanda: perché il lavoratore della scuola non si oppone a tutto ciò? Perché, per dirla alla Barbero, non “cominciare a combattere apertamente tutto ciò che in cuor loro riconoscono come offensivo, inutile, frustrante?”. Già, perché?
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