Valutiamo sempre, valutiamo tutti e tutto. Chi di noi può negarlo? “La vita è fatta di piccole e frequenti valutazioni – osserva il critico cinematografico Barthélemy Amengual – e in molte occasioni dalla bontà di queste valutazioni dipende in buona sostanza la sicurezza e il benessere della persona”. Chi può sostenere il contrario? La valutazione anche a scuola è un dato universale antropologico, è un gesto educativo, un atto didattico, un dialogo continuo. Non è sopra, né sotto, né accanto, ma dentro l’insegnamento, cioè al processo dell’educare istruendo.



Barbier, studioso francese, distingue tre tipi di valutazione: l’implicita, la spontanea, l’istituita. La prima è il volano della maggior parte delle attività e dei rapporti, dentro e fuori la scuola. Influisce diffusamente e costantemente sulle attese e sugli esiti delle azioni didattiche quotidiane. È l’aspetto più immediato della valutazione come dimensione strutturale dell’uomo che, dotato di ragione e di affezione, ha sempre bisogno di percepire ed assegnare, anche inconsapevolmente, un valore, per mettere in moto la libertà.



La valutazione spontanea è, invece, consapevole, subordinata a criteri contingenti, adottati al momento, a seconda delle circostanze, in base ai bisogni e alle attività fondamentali, secondo il buon senso.

La valutazione istituita è esplicita, intenzionale, consapevole, eseguita ed espressa formalmente, con procedure e strumentazioni specifiche, legittimate dall’istituzione e dalla docimologia. È “un atto deliberato e socialmente organizzato che si concretizza in un giudizio di valore” (Barbier). È (dovrebbe essere) in funzione di un incessante miglioramento del servizio all’alunno e alla famiglia. È (dovrebbe essere) presente in tutte le tappe dell’insegnamento, a partire dalle programmazioni dell’anno scolastico,  per puntualizzare e verificare nuove ipotesi, correggere (sostenere) e promuovere (spingere in avanti) e favorire l’avventura della conoscenza del reale mediante ogni disciplina.



Purtroppo, fa paura, soprattutto a scuola. A molti la valutazione sembra una maledizione “propria” della scuola, un marchio suo tipico, un suo inconfondibile tratto, una forma di “detenzione” di potere ora benevolo, ora tirannico da cui fuggire e/o difendersi.

Che fare? Stiamo per cominciare il nuovo anno scolastico. C’è in atto, come sta documentando anche il Sussidiario, un dibattito carico di paure, di pregiudizi, di minacce, di lamentele, d’inerzia, “abbiamo fatto sempre così”, ecc. Non solo tra gli adulti, ma anche tra gli studenti. È recente, ed abbiamo avuto modo di leggerla in tanti, la lettera al Corriere della Sera di uno studente che racconta il suo disagio, la sua delusione, il suo “vuoto”, la sua amarezza.

“Sono un neomaturato di un liceo classico milanese e, a distanza di un mese dalla riapertura delle scuole, ci tenevo a scrivere una lettera (…)  Il primo pensiero che mi è venuto in mente di fronte a tutte le persone che mi aspettavano fuori dall’aula della prova orale, è stato: ‘Ne è valsa la pena?’ (…) Purtroppo, dopo averci riflettuto per non poche settimane, la risposta è che tutto ciò che ho sentito, o che mi rimane, è solo un grande vuoto; un vuoto di cui ritengo pienamente responsabili questi anni di scuola. (…) sempre più dilaniata dalla retorica del merito, della performance e dell’eccellenza (…) Quello che ci è stato insegnato è che, nella vita, non è importante essere rispettosi con gli altri, aiutare chi è in difficoltà o essere gentili con chi ci sta parlando, ma pensare solo a noi stessi, umiliare il prossimo e scavalcarlo per raggiungere i propri obiettivi. (…) Dopo cinque anni dove sono stati questi gli insegnamenti datimi, in cui era considerato non solo normale ma perfino giusto umiliare e far piangere propri studenti, per delle aspettative che non gli si chiede ma gli si ordina di rispettare (…) Abbiamo gridato, abbiamo protestato, abbiamo visto i nostri coetanei  cadere in depressione, farsi del male, non essere più i ragazzi e le ragazze che conoscevamo o perfino togliersi la vita”.

Che fare? Cominciare a considerare, a scegliere e a praticare la valutazione come riconoscimento ed attribuzione di valore nelle sue forme (implicita, spontanea, istituita), nei suoi oggetti (apprendimenti, competenze, istituto), nei suoi strumenti (osservazione, prove, rubriche), nei suoi criteri, a servizio delle persone, della famiglia, degli istituti scolatici, in modo consapevole, cooperativo, paziente e  tenace.

È possibile cambiare lo “status quo” descritto in questa estate?

Sì, liberando innanzitutto la valutazione dai vincoli burocratici, dal riduzionismo, dall’ambiguità del voto, dalla competizione selvaggia, dal giudizio elaborato e basato sulla media aritmetica, dall’affidarsi al computer e non alla responsabilità e al dialogo tra gli attori (docenti, studenti, genitori, gestori e, per certi casi, i cittadini del quartiere e della città). Sì, con uno sguardo accogliente, cordiale, “personalizzante”, correggendo nel vero senso della parola: sostenendo, non inquisendo; cercando quello che c’è, prima ancora che quello che manca. Praticando la cooperazione tra i colleghi e gli altri attori del percorso valutativo; costruendo rubriche chiare, adeguate, pertinenti, efficaci, finalizzate all’autovalutazione, prima, durante e dopo le tappe della progettazione e della programmazione del curricolo, materia per materia. Sì, bonificando la valutazione, cioè pensandola, proponendola, verificandola per quello che essa è davvero: risorsa didattica, fattore di crescita della persona, cura e promozione per tutti gli attori del percorso scolastico. Sì, anche in una scuola sempre più terribilmente “incasinata”, la valutazione può diventare luogo, strumento e tempo di cura dell’insegnamento, degli apprendimenti, delle relazioni, del lavoro. A ricominciare dalla prossima riapertura della scuola, dagli studenti con “debiti”, per esempio.

Lo affermo guardando non solo alla mia esperienza, ma anche a quella di tanti colleghi e di molte scuole. Spero di poterlo documentare su queste pagine con interventi successivi.

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