Molti ragazzi, soprattutto al Sud, non sono liberi di scegliere il proprio futuro. La maggior parte di loro vivono, come ha scritto in una lettera un tredicenne siciliano, da “animali”, abbandonando la scuola e privilegiando la via del facile guadagno. Altri, pur completando gli studi, si ritrovano a vivere nella stessa condizione o perché la situazione socio-economica del Mezzogiorno li spinge alla fuga o perché traditi da utopie instillate da insegnanti falsi educatori.



La letteratura siciliana ci aiuta a focalizzare il problema. E ci offre una via d’uscita.

Partiamo dal protagonista del romanzo Senza re né regno di Domenico Seminerio (Sellerio, 2004). Il suo nome è Stefano, conosciuto nell’ambiente come il “Posporo”, il fiammifero, per la sua facilità ad infiammarsi e a infiammare la realtà circostante. Stefano non è come i ragazzi di Brancaccio di cui si occupava padre Pino Puglisi, ben descritti da Alessandro D’Avenia nel romanzo Ciò che inferno non è (Mondadori 2014). Né assomiglia ai rampolli di ’ndrangheta di cui ci raccontano Roberto Di Bella e Monica Zapelli in Liberi di scegliere (Rizzoli 2019). Gli uni e gli altri vivono in una gabbia, che assomiglia all’inferno, inteso come luogo in cui non c’è posto per i desideri, ma in cui si fa solo ciò che ci viene ordinato di fare.



Stefano il “Posporo”, protagonista  del romanzo di Seminerio, vive anche lui in un inferno, in una “gabbia, una gabbia da cui non uscivi. Non uscivi vivo”. Eppure ha studiato, s’è diplomato in ragioneria, ha frequentato l’università. Ma è stato tradito dal suo insegnante del cuore, che gli ha acceso la passione per la rivoluzione (nel caso specifico la lotta armata dei separatisti siciliani), e che l’ha convinto pure a entrare nell’esercito dei separatisti, ma l’ha abbandonato a se stesso, lasciandolo in balìa di utopisti e di mafiosi. Stefano era rimasto colpito dal quel prof di italiano che gli “apriva gli occhi su molte cose” e lo “infiammava di sincera indignazione per le storture della storia contro i siciliani”. Ma, dopo aver condotto Stefano alla guerriglia, il prof  “accampò dissensi ideologici su tutto, si allontanò, semplicemente, senza dire nulla”. Neanche all’alunno che aveva indotto a lasciare famiglia e società per combattere contro lo Stato.



Per uscire da quella gabbia, Stefano è costretto a fuggire al Nord, a nascondersi per non finire in carcere. Ma proprio nel paesino del Nord dove s’è rifugiato arriva, al confino, un separatista-mafioso, che era con lui nei boschi e che ora lo ricatta. Stefano si ritrova così  a dover fare ciò che i boss gli comandano, non può più far valere la sua volontà. Il giovane, indottrinato da un prof “impegnato”, aveva abbracciato un’utopia, che non reggeva all’urto con la realtà. E il tradimento del prof sta anche nel non aver comunicato all’allievo un metodo per verificare la bontà della sua proposta. “Non conoscevo la realtà, quella vera – dice Stefano nel romanzo – non la prendevo in considerazione. Se la realtà non si piegava alle ragioni dell’ideale, era semplicemente sbagliata”.

Domenico Seminerio ci descrive la storia di questo giovane di buona famiglia “tradito” nelle sue aspettative, nella costruzione del proprio futuro dall’ideologia di un prof. È l’altra faccia della medaglia dei docenti che si ritrovano a volte a trattare con alunni dei quartieri degradati del Sud. Professori che vanno in aula, come candidamente ammette Leonardo Sciascia, a proposito della propria esperienza di maestro elementare a Racalmuto, “con lo stesso animo dello zolfataro che scende nelle oscure gallerie” (Le parrocchie di Regalpetra, Laterza 1956). Docenti, come è facile immaginare, a cui poco importa dei ragazzi che hanno davanti.

Alessandro D’Avenia, in Ciò che inferno non è, ci mostra un’altra figura di insegnante-educatore alle prese con ragazzi che vivono in un contesto che assomiglia all’inferno. Un educatore che sa mostrare ai suoi allievi un’esperienza di bellezza che è all’altezza del desiderio del loro cuore e che per la sua evidenza merita il rischio di uscire dalla gabbia. Ma l’educatore del romanzo di D’Avenia, don Pino Puglisi, è anche disponibile – fino al martirio –  ad accompagnare i suoi ragazzi in questo rischio, fornendo le ragioni per cui vale la pena correrlo e offrendo un metodo per riconoscere quando esso è vero, cioè, quando regge alla prova della realtà.

Attraverso la letteratura ci possiamo, dunque, immergere con più consapevolezza nel nostro presente. Che vede oggi in Sicilia più del 20% dei ragazzi in età dell’obbligo disertare la scuola e che spalanca un’immensa prateria al difficile compito dei prof-educatori.

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