Tra le parole che sentiamo più spesso in questo scorcio di apertura di anno scolastico, ce ne sono molte che iniziano con “ri”: ri-partire, ri-prendere, ri-cominciare. L’idea che ci sia stata un’interruzione che segna un prima e un dopo non solo è diffusa, ma sembra veramente corrispondere a un dato di fatto. Tuttavia, per un educatore, non basta questa consapevolezza, o anche questa buona volontà, per proporre ai suoi ragazzi un modello adeguato alla difficoltà del momento presente. Né esiste una ricetta: solo qualche considerazione per innescare una riflessione.
Tanto per cominciare, è presente in molti un eccesso di pessimismo, l’idea che la società “delle tre S” (sicura, stabile, soddisfacente) sia scomparsa e non tornerà più, e forse non è nemmeno desiderabile che torni. E’ come se questi “adulti adolescenziali” (così li ha definiti lo psicologo Massimo Ammanniti nel suo ultimo libro, che non a caso si intitola “Adolescenti senza tempo”) volessero rifiutare di assumersi delle responsabilità, o si sentissero incapaci di farlo, e desiderassero mantenere il più a lungo possibile un’identità indefinita, sempre alla ricerca di qualcosa di meglio, in mancanza di un centro su cui consistere, forse quel “centro di gravità permanente” di cui parlava quarant’anni fa Battiato in una sua famosa canzone del 1981.
Ma quella che gli psicologi, e anche i sociologi, chiamano “identità esplorativo combinatoria”, tutta aperta verso il futuro e dimentica del passato e forse anche del presente, se è normale negli adolescenti, non lo è più negli adulti, e soprattutto negli educatori, che sono invece caratterizzati appunto dalla capacità di assumersi delle responsabilità, di controllare la situazione.
Certamente, non è di aiuto la perdita di credibilità dell’istituzione scuola, che ha aggiunto ai suoi limiti ormai così consolidati da sembrare insuperabili (la questione insegnante, la netta divisione fra canali professionalizzanti e canali accademici, la marginalizzazione delle scuole paritarie e via dicendo) una incapacità decisionale tanto più nociva quanto più coinvolge chi dovrebbe prendere le decisioni a livello locale e di scuola.
Un governo ondivago del sistema formativo è in assoluto il peggio che possa capitare per “ri”-partire. Un recupero di autorevolezza dei decisori centrali, che vada oltre le mascherine e i banchi con o senza rotelle (a proposito, mia mamma per indicare una persona bizzarra diceva proprio “le manca una rotella”…) unito alla capacità di delegare decisioni alle scuole autonome e agli enti locali mi sembrano due caratteristiche che vanno insieme, e che al momento mancano.
Un amico dirigente mi ha mandato una vignetta in cui, alla voce “Istruzioni per ripartire” il Miur scrive “sparpajamose”. Un riso amaro, naturalmente, ma, parlando seriamente, se al suggerimento “sparpajamose” il Miur avesse aggiunto la delega alle scuole a fare da sé, i soldi per farlo e l’informazione che le loro decisioni sarebbero state valutate, penso che le cose sarebbero andate molto meglio, in tempi più rapidi, con costi minori e meno scontenti. Non è possibile addomesticare il Tirannosaurus Rex del ministero: bisogna che si trasformi in un animale diverso, più piccolo e meno preistorico.
In questo quadro desolante, in cui mi pare che siano assenti parole come cultura, formazione, valori, recupero dei più deboli, risposta ai bisogni locali, vedo una sola piccola luce positiva: si stanno occupando di scuola persone e istituzioni che finora se ne erano bellamente lavate le mani (attività lodevole in quanto anti-Covid, ma in nessun altro campo) e ora sembra abbiano capito che parlare di centralità della scuola non può restare solo un’affermazione retorica, dato che davvero su questo si gioca il futuro di un paese e di una generazione.
Penso che il discorso di Mario Draghi al Meeting di Rimini sia stato il momento più preciso e con maggior forza comunicativa, ma Draghi già in tempi non sospetti ha cominciato a chiedere ad alcuni dei suoi più validi collaboratori in Banca d’Italia di entrare nelle istituzioni formative (l’Invalsi, l’Anvur…) con indubbio sacrificio, ma con risultati ottimi.
Metterei allora fra le condizioni la necessità che si occupino di scuola persone di valore, che godano di una reputazione eccellente e investano tempo e risorse intellettuali, ma non solo: penso alle imprese, il cui impegno negli anni Ottanta e Novanta, culminato con la nomina a ministro di Giancarlo Lombardi nel 1995, mi sembra molto appannato, come indica tra l’altro il ridimensionamento dell’ufficio scuola e università.
Denunciare le lacune della ministra è oramai come sparare sulla Croce Rossa, ma certamente il prestigio del ministero è ai limiti storici. Conta naturalmente anche il clima sociale in cui opera il sistema formativo: l’imbarbarimento e la radicalizzazione dei conflitti ideologici certamente non giovano, così come l’incapacità di rapporti con il passato che ebbe la sua prima teorizzazione con la logica “del cacciavite” del ministro Fioroni.
Da ultimo – ma servirà mai dirlo? – c’è il tema del personale. Il ministero della Pubblica istruzione, che ha la maggior percentuale di laureati di qualsiasi altra impresa pubblica e probabilmente anche privata, che occupava secondo stime di qualche anno fa il 6% dei laureati italiani, è totalmente incapace di esprimere una politica delle risorse umane che non sia di difesa sindacale del posto di lavoro. Non so se servirebbe un dirigente con ampi poteri decisionali che si occupasse specificamente di questo (ho paura che sarebbe fatto a pezzi rapidamente dalle varie sigle sindacali in questo caso in totale accordo): certamente il modo in cui (non) si considera mai il tema nella sua articolazione di personale docente, personale amministrativo e personale dirigente, con un timido accenno alla mancanza di quei quadri intermedi (se si preferisce, middle management) che sono indispensabili in una struttura che ha ormai largamente superato il milione di addetti, ostacola qualsiasi tipo di miglioramento.
Ma ahimè, mi sembra proprio di essere vox clamantis in desertum. La sola possibilità che vedo davanti a me è quella di nutrirmi di miele e locuste: non servirà a farmi ascoltare, ma almeno a smaltire i dolci in eccesso del lockdown…