Torna e ritorna ciclicamente nella vita scolastica italiana l’attesa miracolistica di un’idea geniale che rilanci la qualità dell’istruzione. Chi ha i capelli bianchi ricorda varie stagioni del dibattito politico e pedagogico segnate da aspettative esagerate rispetto a proposte interessanti, meritevoli di non essere strapazzate e gestite invece come “mode temporanee” con superficiale approssimazione.
Tra gli anni 60 e 70, ad esempio, ebbe grande risonanza la didattica della ricerca. Sulla scia della conoscenza di Bruner si pensò fosse giunto il momento di promuovere nuove modalità di apprendimento. Ci fu un’esplosione di iniziative per screditare i libri di testo unite alla critica alla lezione trasmissiva. Le cose andarono però diversamente: un editore con fiuto confezionò un’apposita enciclopedia scolastica e in breve tempo le case della piccola e media borghesia italiana si riempirono dei volumi di Conoscere. La ricerca molto banalmente si ridusse in moltissimi casi nell’inutile esercizio della trascrizione di pagine e pagine su quaderni e album.
Poco più avanti la scuola italiana fu inondata dal mito della programmazione didattica con relativa pubblicazione di volumi (in gran parte traduzioni o adattamenti di testi anglosassoni) che aiutavano gli insegnanti a organizzare la loro attività all’insegna di obiettivi, tassonomie, griglie di valutazione. Si moltiplicarono le riunioni, la compilazione di moduli e documenti, i dirigenti pretesero la certificazione della programmazione di classe. L’unico vero progresso che ne derivò fu il passaggio dalla valutazione cosiddetta sommativa alla valutazione formativa.
Fu poi la volta – lo dirò in ordine sparso – della partecipazione delle famiglie, dell’innamoramento per il cooperative learning, dell’ennesimo ostracismo alla lezione frontale, del declino – speriamo non irreversibile – delle conoscenze a vantaggio esclusivo della competenze, della formula “efficacia-efficienza” e via di questo passo, fino alle vicende di questi ultimi mesi quando gli insegnanti (almeno quelli che lo hanno fatto) a scuole chiuse si sono arrangiati per mantenere qualche forma di collegamento con i rispettivi allievi.
Stando a quello che si legge sui giornali si profila all’orizzonte l’avvio di un grande dibattito sul futuro della scuola da porre in relazione a una parte dei tanti miliardi posti a disposizione del nostro Paese. La speranza è che si resti lontano da altre tentazioni miracolistiche del tipo di quelle che abbiamo sommariamente ricordato (oggi gode di grandi favori, ad esempio, la didattica a distanza, utile a certe limitate condizioni, ma inidonea a rappresentare il baricentro di una riforma scolastica).
Poche semplici avvertenze. La circolazione del virus e l’eccezionalità di quanto è accaduto hanno alimentato anche la formulazione di tante proposte, ipotesi di lavoro, tentativi di cambiare, migliorare, trasformare l’esistente in una logica artigianale forse di qualche utilità per rispondere a situazioni specifiche, ma a rischio improvvisazione se si volessero generalizzare senza adeguate conferme e validazioni. Qualora si andasse per questa strada rischieremmo un 8 settembre scolastico: ciascuno per sé all’insegna del motto “si salvi chi può”.
Non c’è bisogno di discussioni ove ciascuno dispone la sua bandierina e la sua idea di rilancio della scuola. Abbiamo soprattutto bisogno di restituire la scuola ai suoi protagonisti principali: gli studenti e gli insegnanti. Ciò significa veder tornare gli alunni nelle aule, riprendere – quanto più possibile – in sicurezza la vita scolastica quotidiana, stare lontani da qualsiasi esagerazione.
Contro i salti nel buio può essere utile la lettura di un piccolo ma molto serio libro uscito qualche mese a firma di due ottimi studiosi di tematiche didattiche, Antonio Calvani e Roberto Trinchero intitolato Dieci falsi miti e dieci regole per insegnare bene (Carocci Faber, 2020). Sulla scorta delle rigorose ricerche condotte da autori che studiano l’efficacia dell’apprendimento nell’ottica dell’evidence-based (Hattie, Marzano, Pickering, Pollock e altri) secondo gli autori è possibile individuare i principi ispiratori delle pratiche scolastiche in grado di assicurare i risultati migliori. Questi principi sono però annebbiati da numerose credenze, miti, infatuazioni temporanee che distraggono la scuola e orientano gli insegnanti verso prassi dispersive.
Per esempio la diffusa tesi secondo gli allievi apprendono meglio se lasciati lavorare da soli è smentita alla prova dei fatti. Il problem solving guidato è molto più efficace del problem solving nelle mani dei soli studenti per quanto esperti. Anche l’affermazione secondo cui “bisogna partire dalla pratica” è molto discutibile perché, come già annotava Dewey all’inizio del Novecento, non si apprende dall’esperienza, ma dalla riflessione su di essa e cioè dal momento rielaborativo dell’apprendimento. Quanto, poi, all’impiego delle tecnologie – certamente indispensabili – non bisognerebbe eccedere, perché la correlazione tra il loro impiego e il rendimento degli alunni è sconfessata dalla ricerca su ampia scala. “I fautori dell’innovazione tecnologica fanno fatica ad acquisire questo dato di fatto a causa della fascinazione che essa esercita e del suo credito nel contesto sociale” (p. 30).
Gli esempi portati da Calvani e Trinchero smitizzano tanti luoghi comuni e invitano a procedere con sano realismo. Il libro, di facile lettura, suggerisce di evitare le fughe in avanti e di attenerci a poche e semplici pratiche collaudate e validate dall’evidenza empirica.