Mai come in questo periodo la scuola italiana è stata sottoposta a un impegnativo stress test, cioè a una prova della sua capacità di resistere. Almeno a tre livelli: la didattica, l’organizzazione e la professionalità docente. Portata a livelli estremi e continuamente variabili in seguito alle decretazioni governative conseguenti alla pandemia, la scuola italiana del “dopo” sarà ancora quella che abbiamo conosciuto?



La conoscevamo come un luogo verso il quale ci si muoveva tutti insieme la mattina presto, insegnanti e alunni (accompagnati o meno dai genitori): un posto più o meno gradevole architettonicamente ma comunque ben presente nell’immaginario collettivo della società. Uno stabile articolato in aule e corridoi, dentro i quali scorreva una vita, come dentro un alveare. Ronzavano nelle aule i suoni delle lezioni e delle interrogazioni, delle campanelle che segnavamo la fine degli spazi orari dedicati all’insegnamento, delle sedie e dei tavoli mossi dall’irruenza degli alunni al termine di momenti di impegno e di fatica.



In quegli edifici (molto spesso ex conventi, ex ospedali, ex fabbriche, qualche volta anche costruiti nuovi alla bisogna, dunque se non belli almeno funzionali) si rappresentava ogni giorno un’azione, un dramma, una divina commedia ben definita dalle parti rivestite dai protagonisti: i docenti che hanno qualcosa da comunicare, gli alunni che hanno qualcosa da imparare, i genitori che hanno sempre qualcosa da (ri)dire, il personale ausiliario che ha qualcosa da fare, il preside o direttore che ha sempre molto da fare.

I ritmi erano organizzati: la scuola che abbiamo fin qui conosciuto, ciascuna scuola nel suo genere, era un organismo perfettamente oliato. Entra il tale alla tal ora ed esce il collega alla talaltra; se manca un docente lo si sostituisce; se manca un alunno si verifica il motivo dell’assenza. Ogni scuola era un piccolo mondo antico o nuovo, con specificità sue proprie vantate nelle famose giornate dell’orientamento, una specie di mercato cittadino dell’offerta di istruzione. Ma ogni scuola era anche profondamente connessa al territorio, grazie all’intraprendenza di dirigenti all’altezza dei loro compiti, capace di ricevere finanziamenti per i laboratori o la dotazione delle palestre, capace di attirare fondi governativi ed europei.



La scuola italiana che abbiamo conosciuto era la scuola del servizio nazionale di istruzione, articolata in statale e non statale. Era una scuola stratificata, piaccia o non piaccia. Scuola dello Stato per quanto riguarda il valore legale del titolo di studio, cioè uniforme nell’attribuzione dei titoli finali, ma diversificata nei metodi di insegnamento e di apprendimento. Le riforme degli anni Novanta e dell’inizio del nuovo Millennio sembravano avere terminato il lungo periodo di gestazione di una scuola formativa, comprensiva, poco professionalizzante e molto socializzante. Una scuola delle conoscenze e delle competenze, si diceva. Una scuola dell’apprendimento più che una scuola dell’insegnamento, si diceva pensando alle nuove metodologie costruttiviste mutuate dalla pedagogia anglosassone e tradotte in lingua italica.

Poi è arrivato il virus, poi è arrivato il lockdown, poi sono arrivati i Dpcm. Il crollo, la fine di un mondo, la fine del mondo di prima.

Eccoci al gigantesco stress test che sottopone la scuola alle seguenti prove di resistenza: 1) fine della scuola in presenza; 2) didattica a distanza, detta amichevolmente “Dad”; 3) saltato ogni ordine orario consolidato, entrate e uscite da ripensare; 4) presidi e dirigenti sottoposti ai compiti più disparati, prima le postazioni distanziate nelle aule coi banchi a rotelle, poi la verifica delle dotazioni informatiche solitamente molto precarie; 4) docenti a cui si chiede di adattarsi, di cambiare quasi lo status professionale, non più attori nell’arena dell’aula, ma voci più o meno suadenti che parlano attraverso uno schermo e in poco tempo devono avvincere, convincere prima che dall’altra parte l’interlocutore-alunno se ne vada via con la testa.

Questo è quanto è successo, questo sta accadendo, un gigantesco cambiamento di prospettiva, che continuiamo a chiamare scuola, anche se con la Dad a scuola non si va, ma la si riceve. Questo è il punto, qui è il cuore della torsione cui è sottoposta la scuola. Si potrebbe rappresentare questo cuore con una domanda: può l’assenza (di fisicità) tradursi in una presenza (di comunicazione significativa)?

Non esistono automatismi che permettano di rispondere, perché dallo stress test si può uscire solo se ciascuno dei soggetti interessati (alunno, docente, dirigente, genitore, collaboratore, tecnico, ecc). riscopre in sé, nella propria storia o identità, il desiderio di ricevere, piuttosto che scambiare passivamente del tempo per essere riempito da qualche nozione.

Questa via d’uscita dallo stress test, che non è altro che la dimensione della responsabilità personale, cioè la decisione di fare i conti con la realtà e rispondere, può essere un colossale antidoto al rischio di un abbassamento del livello culturale che minaccia le attuali generazioni giovanili come esito della pandemia.

Vediamo al volo cosa possa significare desiderare di ricevere. Per gli alunni sottoposti alla Dad, predisporsi a comprendere ciò che stanno ricevendo: dunque avere una continua domanda aperta di conoscenza. Per i docenti impegnati con la Dad essere attenti non solo a dare informazioni ma a ricevere continuamente riscontri: dunque a vivere diversamente ma non meno appassionatamente la vocazione all’insegnamento. E infine per la scuola dell’organizzazione in stile ottocentesco-burocratico, fornire un supporto flessibile, capace sì di tappare i buchi ma anche di rilanciare, sostenere e incoraggiare. Una scuola forse meno burocratica, forse costruita giorno per giorno, ma più collaborativa, più rispondente alle esigenze dei singoli alunni e docenti. Una scuola che non rimanda al domani quello che si può fare oggi, perché il domani è la continuazione del chiodo che pianto oggi.

Quando si tornerà con i piedi per terra nelle aule e tra i banchi, con o senza pattini, avrà guadagnato in sapienza chi avrà avuto il coraggio guardare i chiodi piantati piuttosto che i muri crollati alle sue spalle.