Senza grande attenzione mediatica, se non a cose fatte, la Camera ha votato nei giorni scorsi il disegno di legge n. 2372, volto a promuovere una sperimentazione scolastica sullo sviluppo delle competenze non cognitive. Il testo approvato non dice molto di più: ed anzi demanda proprio alla futura sperimentazione l’individuazione delle competenze da sviluppare.
Cosa siano le competenze non cognitive lo si sa peraltro a grandi linee ormai da tempo: sono quei tratti di personalità che danno un valore aggiunto, in termini di efficacia personale, al patrimonio di conoscenze posseduto dai singoli. Empatia, gestione del conflitto, comunicazione, consapevolezza e gestione di sé, motivazione, autostima, resilienza …; ma l’elenco rimane aperto. Questi aspetti del carattere sono noti ed osservati da tempo e sostanzialmente considerati desiderabili: dove sta allora la novità e, soprattutto, da dove traggono origine i timori e le polemiche che hanno seguito il voto?
Provando a guardare al di là delle questioni meramente nominalistiche, il nodo sembra essere questo: la formazione della personalità è sempre stata fra gli obiettivi della scuola, in particolar modo negli indirizzi di studio umanistici (quelli che, fin dal nome, si propongono di “formare l’uomo”). Ma era considerata come una sorta di epifenomeno spontaneo di altri processi: per dirla con Ernesto Galli della Loggia, la scuola agiva “dispensando ai giovani le più varie conoscenze e poi lasciando che nell’animo di ognuno di essi quelle conoscenze, i libri letti, i pensieri e le emozioni nati nell’aula scolastica durante ogni ora di lezione s’incontrassero con la sua indole, la sua fantasia, il suo animo e fecondandole dessero vita a quella cosa che si chiama la personalità”. Detto benissimo, significa che la personalità si sviluppa attraverso un processo individuale e spontaneo e quindi non programmato, a garanzia della libertà e dell’unicità dei singoli.
Il fatto che in futuro quel processo non dovrebbe più essere abbandonato alle misteriose alchimie individuali, ma diventare un obiettivo consapevole, porta con sé un rischio: che si miri allo sviluppo di un modello di personalità predefinito, a partire da certe caratteristiche considerate desiderabili. Il disegno di legge lascia qualche spazio a questi timori, quando include fra gli obiettivi della sperimentazione quello di individuare “le buone pratiche relative alle metodologie e ai processi di insegnamento che favoriscano lo sviluppo delle competenze non cognitive, nonché dei criteri e degli strumenti per la loro rilevazione e valutazione”. Soprattutto la parola “valutazione” ha fatto drizzare le antenne: comporta – almeno potenzialmente – che alcune caratteristiche della personalità vengano considerate desiderabili e come tali da incentivare. In sostanza, che un certo tipo di uomo sia proposto come modello formativo ed altri siano disincentivati con un sistema di premi e punizioni.
Non sembra un rischio imminente: questi atteggiamenti non si insegnano in quanto tali, tanto meno in una scuola come la nostra, piena zeppa di insegnamenti disciplinari che saturano tutto il tempo a disposizione. Realisticamente, le vie possibili sono due: fare come sempre si è fatto ed affidare lo sviluppo della personalità ad un processo spontaneo ed individuale, sia pure fecondato dalla molteplicità degli stimoli disciplinari e dei contatti interpersonali; oppure destinare alla formazione del carattere un tempo lungo apposito, svincolato dalle discipline e fondato su attività formative, sulla predisposizione di contesti educativi, sulla pedagogia dell’esempio e della relazione. Tanto per fare qualche esempio, centrato sui giochi di ruolo, sui dibattiti, sulle attività sociali e di volontariato, sulle arti, sullo sport di squadra, sui progetti di collaborazione in vista di obiettivi che non possono essere raggiunti dai singoli.
Una tale pedagogia olistica è già esistita, al tempo in cui i privilegiati usavano affidare i propri figli a selezionati precettori, destinati ad essere maestri di vita a tempo pieno e non solo maestri di discipline. L’obiettivo, dichiarato, era quello di prendersi tutto il tempo necessario per imparare ad essere e non per acquisire conoscenze immediatamente utili.
L’attuale disegno di legge ha ambizioni decisamente più modeste: esso coniuga l’alata indeterminatezza degli obiettivi con la consueta taccagneria dei mezzi, recitando nell’ultimo articolo l’abituale mantra circa il divieto di introdurre nuovi o maggiori oneri di spesa. Allora, tanto vale dire subito che non si corrono grandi rischi per la libertà individuale, ma che neppure è lecito nutrire grandi speranze circa gli esiti della sperimentazione. In una scuola soffocata dalle discipline e che ha da tempo rinunciato a farsi carico delle emozioni, non c’è spazio per competenze non cognitive da programmare scientemente. Ognuno farà da sé, come sempre.
Per cambiare paradigma, occorrerebbe in primo luogo cambiare la dimensione temporale, affiancando al tempo delle nozioni un tempo delle emozioni, degli interessi, dello stare insieme: non per un obiettivo materiale, ma per un progetto di relazione, per imparare a vivere con gli altri e non soltanto a convivere come polli della stessa stia. Occorrerebbe un tempo lungo e pieno di esperienze di vita e non solo di studio, un tempo formativo e non solo istruzionale. E figure adulte non votate unicamente all’insegnamento e alla valutazione, ma alla crescita personale.
Sognare un tale modello non è vietato: ma sognare non basta, se non si hanno a disposizione i mezzi per realizzarlo o se si continua ad usare per le cose della formazione il metro avaro della lesina. Un paese senza sogni e senza progetti, senza capacità di sacrificio a fronte di grandi idealità collettive forse non si può permettere altro che sperimentazioni senza radici e senza futuro.
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