Non sono dell’idea che la nostra sia la Costituzione più bella del mondo. Mi pare un’affermazione smodata. Comunque c’è. E finché, seguendo le regole da essa stessa statuite, dopo 72 anni, non si riesce a cambiarla almeno nelle sue parti più anacronistiche e perenti, dovrebbe rimanere per tutti i cittadini, a partire ovviamente dall’alto, istituzioni in prima linea, quasi come un patto matrimoniale: da rispettare nella buona e nella cattiva sorte. Non a intermittenza, con i noti opportunismi politici, giudiziari e mediatici di chi la afferma o la nega, la esalta o la abbassa a seconda del proprio interesse personale o di fazione.
Ha ragione, perciò, Sabino Cassese a ricordare che nella scuola, asset strategico per un paese che non brilla per risultati soddisfacenti in questo campo, per la verità come in tutti gli altri uffici della Pubblica amministrazione, si dovrebbe entrare solo per concorso (Corriere della Sera, 2 ottobre, “La scuola e i concorsi da fare”). Lo dispone l’articolo 97, comma 3 della Costituzione.
Il problema non è di sicuro mettere in discussione questa disposizione generale, con la logica credenzialista da cui proviene (oggi la stessa Europa diffida del ragionare per titoli di studio formali: preferisce spostare l’attenzione sulle competenze reali delle persone). E non solo perché, in questi mesi, abbiamo visto violati e compressi, nella complicità e nell’incredibile appeasement di mass media e intellettuali, princìpi e prerogative costituzionali ben più sostanziali e dirimenti di questa. Ma proprio per la ragione opposta: perché servirebbe applicarla con efficienza e soprattutto con efficacia non solo nella scuola, ma in tutti i campi della Pubblica amministrazione (visto come è ridotta la nostra giustizia, vogliamo forse sostenere che i concorsi in magistratura sono stati un filtro efficiente ed efficace? Anche solo lasciar passare vincitori che usano una grammatica che fa a pugni con quella italiana non è già un modo per preannunciare una giustizia che fa a pugni con l’equità?).
Momento opportuno?
Ma torniamo alla scuola. La questione da porre qui in discussione è l’aver deciso a fine febbraio, contro ripetute obiezioni parlamentari (ma ormai, purtroppo, il Parlamento è commissariato dal governo), di bandire, proprio nell’annus horribilis che già si sapeva segnato dai giganteschi problemi della ripartenza scolastica post-Covid, concorsi riservati e ordinari per oltre 600mila candidati (a loro volta, per la massima parte precari che si assenteranno a lungo dalle lezioni, provocando gravi disagi) e con migliaia e migliaia di commissioni di valutazione composte da dirigenti e docenti che dovranno accoppiare questo loro impegno con il già problematico normale servizio.
Inoltre, sempre a febbraio, una seconda questione da discutere non è l’aver autorizzato, ma l’aver rivendicato come merito politico il fatto di procedere:
a) ai trasferimenti di oltre 100mila docenti a tempo indeterminato;
b) alle assegnazioni provvisorie per altre migliaia e migliaia di insegnanti;
c) all’aspettativa senza stipendio concessa a chi, ad esempio, immesso in ruolo al Nord, avesse ritenuto per lui più conveniente economicamente chiedere di essere nominato supplente annuale in una scuola vicina a casa del Centro-Sud;
d) a non confermare nelle rispettive sedi di servizio quasi 200mila docenti precari, compresi i quasi 90mila non specializzati per il sostegno (ben sapendo che, nonostante la retorica istituzionale sulla scuola inclusiva, la maggior parte dei disabili, cambia, ogni anno, da due a quattro supplenti, tra cui almeno uno non specializzato, compromettendo in questo modo la qualità della relazione educativa con questi studenti).
Le conseguenze di questi provvedimenti sono state che, nel settembre della ripartenza post-Covid, per i primi mesi e per l’intero anno c’è stato e ci sarà un imponente facite ammuina territoriale di ben oltre la metà dei quasi 900mila docenti totali. Tutti questi hanno incontrato e incontreranno per la prima volta colleghi e, soprattutto, studenti e famiglie di cui non conoscono né storia, né problemi di apprendimento accumulati l’anno precedente. Cosicché l’auspicato e più volte promesso recupero degli apprendimenti persi dagli studenti nel lockdown o il rispetto della continuità educativa e didattica saranno semplicemente frasi fatte.
Se a questo aggiungiamo i buchi, anzi le voragini, create negli orari e nella regolarità delle lezioni dalle misure sanitarie indispensabili per proteggere docenti e studenti dal rischio di contagi fino a giustificare per l’intero anno, tra tamponi e quarantene a macchia di leopardo, migliaia e migliaia di professori che non avranno studenti e centinaia di migliaia di studenti che non avranno professori, si ha l’idea di quanto la definizione di annus horribilis per la possibile qualità finale degli apprendimenti scolastici possa risultare perfino eufemistica.
Torniamo, invece, alla questione di merito: la necessità dei concorsi rivendicata dal professor Cassese per corretta attuazione del dettato costituzionale. In proposito, ci sono, tuttavia, almeno tre grossi elefanti nella stanza, che nessuno, purtroppo, ha voluto vedere e riconoscere per cercare di farli uscire. Esempi paradigmatici di ostacoli epistemologici, direbbe Bachelard. Di idee che impediscono altre idee e che costringono a non credere in ciò che si vede e si tocca ogni giorno e, invece, a vedere e toccare soltanto ciò che coincide con ciò in cui si crede.
Il primo elefante nella stanza
Il primo elefante è rappresentato dall’inerzia della storia. Da che esiste la Costituzione, infatti, da noi si sono inventati tutti i modi, da un lato, per chiamare concorsi ciò che sarebbe stato più corretto chiamare “concorsi (molto) riservati” (18 volte negli ultimi 40 anni) e, dall’altro lato, per procedere addirittura numerose volte ad immissioni in ruolo ope legis per solo servizio prestato. Ambedue i casi, a parte l’ovvio consenso sindacale, hanno sempre goduto di ampie giustificazioni ora politico-parlamentari (cioè di leggi, ex ante o addirittura ex post), ora di giustizia amministrativa (cioè di sentenze).
Tale sistema si basa infatti su due princìpi mai teorizzati ma sempre sottintesi e soprattutto praticati dal 1948 ad oggi. Il primo, politico, si riferisce alla forza normativa del fatto compiuto (e, non come dovrebbe essere, alla forza della norma a cui dovrebbero seguire rapidi e coerenti fatti applicativi): come a dire, c’è gente che insegna da anni, se non decenni, senza essere di ruolo, mettiamoli in ruolo. Il secondo, amministrativo, recita che, nei provvedimenti legislativi e amministrativi via via stratificatisi nel tempo, “tutto si aggiunge, senza mai togliere nulla”. Cosicché nella selva equatoriale impenetrabile di leggi, commi, rimandi, decreti legislativi, decreti ministeriali che regolano la materia si trova sempre qualche contraddizione attraverso la quale la giustizia amministrativa rafforza il primo principio. Facendo politica, accusando però la politica di non fare leggi chiare e nette.
Si è istituito, in questo modo, un doppio legame che nessun richiamo all’articolo 97 della Costituzione è finora riuscita a scalfire. In questo contesto, la reiterata promessa che si sussegue come un mantra dal 1948 di concorsi statali scanditi ad intervalli regolari (biennali o triennali) si è sempre rivelata falsa. I concorsi regolari degli ultimi 40 anni per la scuola secondaria di secondo grado, ad esempio, sono stati banditi ogni 7 anni!
Questo sistema fallimentare di reclutamento ci ha portato ad avere un corpo docente con l’età media più alta dei Paesi Ocse (Eurostat dice: il 19% dei nostri docenti ha più di 60 anni; il 57% più di 50 anni, con le scuole secondarie ad oltre il 60%). Percentuali aumentate tra il 3% e il 6% con le assunzioni degli ultimi tre anni e, ancora di più, nelle scuole dell’infanzia e primaria. Nell’Ue la media dei docenti over 50 è oggi al 36% e pure in Giappone, il paese che con noi ha l’età media della popolazione più alta al mondo, non si va oltre il 40%.
Ora, premesso che i concorsi in svolgimento sono in parte (molto) riservati e in parte ordinari, vista la storia ricordata, sarebbe stato scandaloso rimandarli a tempi migliori, magari nel frattempo migliorandoli nell’efficacia delle procedure di selezione?
Il secondo elefante nella stanza
Il secondo elefante che occupa tutta la stanza senza volerlo vedere e spostare riguarda invece le modalità e l’affidabilità dei concorsi, non parliamo di quelli riservati (riservati non a caso), ma soprattutto di quelli ordinari. I concorsi, infatti, non dovrebbero avere una funzione giuridica formale, credenzialista, ma, appunto, pedagogicamente sostanziale. Non tanto esserci, ma essere impostati in modo tale da poter scegliere il meglio disponibile per la delicata funzione che si bandisce.
Invece, per mille ragioni di fatto, le procedure concorsuali che si sono svolte da 72 anni, se si sono preoccupate di evitare ricorsi amministrativi, di obbedire recentemente a disposizioni Ue che impongono l’assunzione a tempo indeterminato dei supplenti dopo tre anni di precariato, di assicurare le immissioni in ruolo in avvio dei nuovi anni (quindi fretta, fretta) per fingere di evitare la storica patologia tutta italiana del precariato, di avere anche l’accordo con i sindacati, sono state e sono tuttora del tutto indifferenti, salvo che nella forma della predicazione moralistica e dell’artificio amministrativo più o meno cosmetico (saggi brevi al posto di quiz, o viceversa), all’obiettivo di selezionare docenti realmente in possesso delle cinque competenze chiave stabilite già nel secolo scorso, a livello internazionale, condizione per un esercizio proficuo di questa professione:
1) padroneggiare in profondità non solo i saperi disciplinari che si è chiamati ad insegnare, ma anche quelli neuro-psico-antropo-pedagogici che ne giustificano la presentazione, l’organizzazione e la successione in un certo modo;
2) essere competenti nelle mediazioni didattiche operativamente indispensabili per personalizzare gli apprendimenti degli studenti che, per loro conto, non sono mai teste vuote da riempire, ma semmai sempre piene di altro che la scuola, purtroppo, non riesce né ad intercettare né ad avvalorare riflessivamente ai fini di favorire sempre l’apprendimento significativo di quanto insegna;
3) dimostrare in situazione attitudini alla relazione interpersonale non sociale, psicologica o antropologica, ma pedagogica, con i ragazzi e con l’ambiente socio-culturale da cui provengono;
4) partecipare in modo attivo alla crescita della comunità tecnico-professionale di appartenenza, collaborando con i colleghi, le famiglie, il territorio, le università e i centri di ricerca territoriali per la soluzione di problemi e la realizzazione di progetti professionali di personale o comune interesse;
5) praticare, con adeguate metodologie scientifiche, l’autoriflessione e l’autocomprensione critiche del proprio operato professionale e di quello adottato nella scuola, coinvolgendo a sistema anche gli interlocutori esterni come gli esperti, le università e i centri di ricerca.
Prive di questi orientamenti prospettici, occorre avere allora il coraggio di riconoscere che tutte le politiche di reclutamento condotte negli ultimi 72 anni, compresa l’ultima che ne è una continuazione alla seconda potenza, sono state, chi più chi meno, per lo più strumentali al consenso elettorale e alla decisione politica di lungo periodo volta a trasformare la scuola statale nella più grande agenzia centralizzata di collocamento per laureati sottoccupati o disoccupati esistente al mondo (il numero dei dipendenti del ministero dell’Istruzione è, infatti, superiore a quello dell’esercito cinese ed è quasi il triplo di quello del più potente esercito esistente, quello Usa, con 450mila effettivi; e questo con una platea di studenti che tra il 2000 e il 2030 si sarà dimezzata a 6.367.000).
L’ultimo elefante nella stanza
Il terzo elefante nella stanza è abbastanza recente. Dura grosso modo da 20 anni. Consiste nel parlare intenzionalmente (e molto) di emergenza concorsi e di precariato intollerabile (però facendo sempre il possibile per aumentarlo) allo scopo di nascondere meglio i due veri nodi del problema: il primo istituzionale, riguardante il fallimento di una gestione centralizzata del personale; il secondo pedagogico-culturale, relativo ad una formazione iniziale del tutto sbagliata, perché ancora improntata sul paradigma epistemologico del fordismo disciplinare, brutta copia del fordismo aziendale del secolo scorso, oggi ormai del tutto abbandonato. Insomma, un po’ come un invitare tutti a guardare con attenzione il dito, perché a nessuno scappi l’occhio alla luna.
Tutta questa furbizia, tuttavia, poteva ancora reggere finché il numero complessivo degli studenti aumentava. Ma da quando è iniziato il galoppo del processo inverso essa è insostenibile.
La formazione iniziale dei nostri docenti, da un lato, è più lunga che in tutti gli altri paesi del mondo e, dall’altro lato, non è a numero programmato in base ai fabbisogni né abilitante all’esercizio della professione (salvo che nel corso di laurea in Scienze della formazione primaria). I nostri laureati sono perciò costretti ad entrare molto tardi nella scuola: i precari entrano in ruolo in media a ben 43 anni e l’intero corpo docente ha un’età media di quasi 54 anni (con il 44% che ha più di 55 anni). In più, ogni anno (e quest’anno 2020-2021 in modo esponenziale e quindi ancora più catastrofico) accade il balletto infinito delle graduatorie e delle supplenze.
Sia, dunque, per ringiovanire l’esercito dei nostri 900mila docenti, sia per abilitarli all’esercizio della funzione docente in grandi e piccoli gruppi, in presenza e in e-learning, sia, infine, per chiudere definitivamente la lunga stagione del precariato che dura da un secolo e mezzo e che non può più essere tollerata, oltre che in sé soprattutto per la nuova organizzazione verso cui il sistema di istruzione e formazione deve tendere alla luce del post-Covid, si rende indispensabile istituire subito lauree magistrali a numero programmato in base al fabbisogno, che abilitino all’insegnamento e che permettano l’iscrizione ad albi regionali degli abilitati.
Tali lauree, per la loro natura abilitante, non possono essere promosse solo dall’università, ma devono nascere da una cooperazione sinergica e continua con le scuole. Da sole, infatti, ai fini della professionalità docente, queste due fondamentali istituzioni formative fanno danni, mentre intrecciate si rafforzano a vicenda, rendendo possibile la combinazione tra azione e riflessione, tra didattica attiva e ricerca scientifica, così indispensabile per una “magisterialità” degna di questo nome.
Una volta istituito l’albo degli abilitati, si tratta di decostruire l’attuale sistema di reclutamento centralistico. Serve invece riconoscere il reclutamento all’autonomia delle reti di scuole che devono avere la possibilità di selezionare, sulla base di norme generali nazionali, le professionalità di cui hanno bisogno. Un conto, infatti, è aver bisogno di un docente per le antiche lezioni d’aula e per di più magari monodisciplinari, un altro di un docente che possa fare questo, ma possa anche essere uno specialista dell’e-learning oppure, meglio ancora, possa svolgere la funzione di gouverneur-tutor di piccoli gruppi di studenti accompagnati per un intero ciclo nella costruzione e nella valutazione dei piani di studio personalizzati. Personalizzazione dei piani di studio di cui ci sarà sempre più bisogno, come sta già dimostrando quest’annus horribilis. A meno di rassegnarsi all’aumento vertiginoso delle disuguaglianze già intollerabili e del deterioramento ulteriore della qualità complessiva della nostra scuola.