In questo periodo dell’anno sulla scrivania dei dirigenti scolastici arrivano le richieste di genitori e studenti che il prof. Rossi o la prof.ssa Verdi siano confermati in cattedra per l’anno successivo. Si tratta di lettere spesso accorate, di solito molto belle, che raccontano di un anno scolastico trascorso insieme con soddisfazione e del desiderio di proseguire un percorso di apprendimento e una relazione educativa che ha dato soddisfazione a entrambe le parti.



Fin qui, tutto normale. Se non fosse che siamo in Italia e, come spesso accade, il prof. Rossi e la prof.ssa Verdi appartengono a quella vasta schiera di docenti, i cosiddetti precari, che insegnano con un contratto annuale, conferito a settembre sulla base di meccanismi burocratici che nulla hanno a che fare con il merito delle questioni: le graduatorie non tengono in alcun conto le competenze professionali dei docenti, il progetto formativo delle scuole, la continuità didattica. Di fronte a queste lettere, il povero dirigente scolastico con animo sconsolato si trova a rispondere che “ha le mani legate” (vero), che “non può intervenire sui processi di nomina dei docenti” (vero) neanche quando, “come in questo caso”, la permanenza del prof. Rossi o della prof.ssa Verdi sarebbe nell’interesse di tutti.



Proprio in questi giorni si discute in Parlamento la conversione del Decreto-Legge 30 aprile 2022, n. 36, che nel quadro delle riforme legate al Pnrr interviene tra le altre materie anche sulla formazione iniziale e continua, nonché sul reclutamento (parola orribile, ma pazienza) dei docenti delle scuole secondarie.

Gli ingredienti sono quelli già visti, variamente combinati tra loro, nei diversi tentativi di legiferare sulla materia che si sono susseguiti almeno dai tempi delle Ssis (Scuole di specializzazione per l’insegnamento secondario), istituite con la legge 19 novembre 1990, n. 341 e avviate nel 1999 dall’allora ministro Luigi Berlinguer. A questo giro, la riforma prevede l’istituzione di un percorso universitario di formazione iniziale, comprensivo di un periodo di tirocinio e abilitante all’insegnamento. All’abilitazione dovrebbe seguire la partecipazione a un concorso pubblico nazionale con cadenza annuale, finalizzato alla copertura delle cattedre vacanti. Superato il concorso, un anno di prova in servizio con valutazione conclusiva e, in caso di superamento, l’assunzione in ruolo.



È certamente condivisibile il principio che regge la parte iniziale del percorso: per insegnare occorrono una formazione specifica e non solo disciplinare, un periodo di esperienza che consenta osservazione sul campo e riflessione (il tirocinio), momenti di verifica che accertino l’acquisizione delle competenze professionali. Ciò che invece non convince è la declinazione burocratica dei principi in fatti, in particolare per la seconda parte del percorso delineato. 

Ancora una volta, la traiettoria che dovrebbe accompagnare gli aspiranti docenti alla loro futura sede di lavoro è affidata al mito – apparentemente inscalfibile – del concorso nazionale, ovviamente da realizzarsi ogni anno a copertura delle cattedre vacanti. Un proposito nei fatti irrealizzabile. Questo dovrebbero averci insegnato gli ultimi tre decenni: i concorsi nazionali non sono mai annuali, non garantiscono mai la copertura delle cattedre vacanti e, nella loro natura di mastodontica macchina burocratica, non permettono una selezione affidabile dei migliori docenti.

I concorsi nazionali rispondono ad altre esigenze, che nulla hanno a che fare con il buon funzionamento delle nostre scuole e, quindi, con la qualità dei percorsi formativi offerti agli studenti. L’unica ragion d’essere dei concorsi nazionali è garantire la massima distanza possibile tra le esigenze reali – ad esempio la permanenza del prof. Rossi o della prof.ssa Verdi, che bene stanno facendo nella scuola in cui si trovano – e la decisione sui percorsi lavorativi dei docenti, in nome di una supposta imparzialità dello Stato che è, nei fatti, indifferenza alla qualità del servizio di istruzione e formazione. 

In altre parole, attraverso i concorsoni nazionali – quelli capaci di raccogliere oltre 400mila candidature come accaduto con l’ultimo ordinario, attualmente in corso di svolgimento – e attraverso il meccanismo altrettanto burocratico e impersonale delle graduatorie provinciali, lo Stato evita di assumersi la responsabilità di decidere se il prof. Rossi o la prof.ssa Verdi non possano meglio proseguire il proprio lavoro là dove già si trovano e in quella scuola andare a occupare, in maniera continuativa, le cattedre vacanti che generano discontinuità didattica, minano la possibilità della scuola di costruire un progetto formativo solido, rendono in ultima analisi più fragile il percorso di crescita e di apprendimento degli studenti.

La soluzione è da tempo sotto gli occhi di tutti e da molti è stata a più riprese prospettata, ma pare essere un tabù insuperabile quando si tratta di legiferare. Il livello di svolgimento dei concorsi deve essere riportato molto più vicino alle scuole, ad esempio con la possibilità di istituire procedure concorsuali a livello di reti territoriali o di raggruppamenti legati a specifici indirizzi di studio. 

In primo luogo, perché sono le istituzioni scolastiche ad avere un interesse diretto e immediato al completamento e alla stabilizzazione del proprio organico: l’interesse diretto e immediato che manca invece allo Stato, con la conseguenza che i concorsi non mantengono mai l’auspicata cadenza annuale e, anche per le loro dimensioni fuori scala, falliscono regolarmente nella copertura dei posti vacanti e disponibili. 

In secondo luogo, bandire concorsi a livello di reti consentirebbe l’individuazione di docenti in alcuni casi già noti e sperimentati sul campo, in altri di nuovo arrivo ma dotati – almeno sulla carta – di caratteristiche e competenze più rispondenti alle specifiche esigenze degli istituti interessati. 

In terzo luogo, ma a ben vedere si tratta della questione centrale, i concorsi a livello di rete sarebbero un’assunzione di responsabilità di fronte alle famiglie e agli studenti: le scuole – e loro tramite lo Stato – si assumerebbero la responsabilità di individuare attraverso procedure pubbliche, aperte e trasparenti, i migliori docenti possibili per quella specifica realtà, per quella specifica situazione, per quella specifica esigenza. In altre parole, si scioglierebbe l’equivoco tra l’imparzialità che deve informare il comportamento di ogni pubblica amministrazione e l’indifferenza che domina laddove si spaccia la burocrazia per equità.

Conosciamo l’obiezione che ci attende: con i concorsi a livello territoriale il dirigente scolastico metterà in cattedra suo nipote, l’amico del vicino di casa, il compagno di briscola. È un’obiezione appiccicosa, ma debole. Se le scuole e – inevitabilmente – gli stessi dirigenti diventano responsabili dell’individuazione dei docenti più adeguati al proprio progetto formativo, genitori e studenti potranno finalmente chiedere conto dell’eventuale inadeguatezza dei loro insegnanti senza che più nessuno possa rispondere loro “non ci posso fare nulla, i docenti arrivano dai concorsi e dalle graduatorie”. L’avvicinamento della scelta dei docenti al livello delle singole scuole, in sostanza, produrrebbe una maggiore trasparenza dei processi e porterebbe con sé una misura di rendicontabilità che oggi non esiste. 

Chi sceglie di difendere concorsi nazionali e graduatorie sceglie di tutelare un sistema che anno dopo anno dimostra di non funzionare, e lo difende per timore degli abusi che potrebbero venire da una gestione più responsabile e più legata al funzionamento reale delle scuole e al rispetto delle prerogative dell’autonomia. In altre parole, si preferisce avere la certezza che tutto continui a non funzionare ma resti splendidamente uniforme e impersonale, per timore che l’assunzione di responsabilità porti con sé anche qualche misura di inadeguatezza.

Occorre coraggio e visione, ma il superamento dei concorsi nazionali e delle graduatorie provinciali è un passaggio di sistema necessario, se si vuole davvero liberare il potenziale delle nostre scuole. Spiace notare che, anche a questo giro, si scelga invece di mantenere in vita un sistema morto nei fatti da tempo. Occorrerà, quanto meno, interrogarsi sulle ragioni di questa ennesima occasione persa.

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