Un provvedimento in gestazione da qualche tempo, e atteso da molto di più, sta per arrivare in porto. Se ne attendono i bandi, ma il ministro Fioramonti ha annunciato, in un incontro alla Luiss la scorsa settimana, l’avvio dell’iter per indire un “concorso straordinario” e uno (successivo, di cui non si conosce però la tempistica) “ordinario” per la scuola secondaria del primo e del secondo ciclo.
Evviva!, verrebbe da esclamare. Ma occorre ancora prudenza prima di lasciarsi prendere dall’entusiasmo. Lo stesso ministro precisa che si sta lavorando per fare in modo di far uscire il bando all’inizio del 2020 e per riuscire a coprire le cattedre con i vincitori il prossimo 1° settembre.
Come al solito si lavorerà con la ristrettezza dei tempi, in stato di perenne emergenza e con il serio rischio che anche un piccolo intoppo possa far saltare il traguardo.
Allora, accanto alla prudente soddisfazione per quanto annunciato, occorre proporre una riflessione sulla politica del personale in un settore che è ancor più che strategico per il Paese, come la formazione delle nuove generazioni.
Il recente comunicato stampa di Disal, Diesse, Cdo Foe e Rischio Educativo si chiude con il monito di Hannah Arendt, che ritengo cruciale: “L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo di esseri nuovi, di giovani”.
Quindi ciò che è in gioco è molto di più che semplicemente una pur doverosa sistemazione di lavoratori precari e di risposta alla domanda di lavoro intellettuale, ma prioritariamente una risposta all’esigenza di garantire futuro “al mondo”, cioè al nostro Paese.
Occorre essere consapevoli che “l’arrivo di esseri nuovi” per colmare i vuoti tra le fila del corpo docente avrà il compito di “generare” esseri nuovi per il mondo.
Che così non sia, o forse che si faccia di tutto perché non emerga, o ancora che si sia smarrito nei meandri delle procedure e degli accordi sindacali, lo si legge nei fatti, accolti ormai come fatale e avverso destino che si abbatte sulle umane sorti.
È considerato, infatti, del tutto normale, per esempio, che nelle scuole non si possano preventivamente (anche per figure apicali) operare avvicendamenti con periodi di affiancamento. Ciò per un’organizzazione complessa significa ogni volta faticosamente ripercorrere una china per riposizionarsi sui precedenti livelli. Si dirà che ciò vale per tutta la pubblica amministrazione, allora forse occorre riflettere anche su tutti gli altri ambiti.
Ma proprio nel segmento più delicato della pubblica amministrazione, e in proclamata “autonomia”, si continuano ad applicare princìpi ottocenteschi di gestione amministrativa. Allora il quadro organico era pensato applicabile a qualsiasi situazione e ciascun “addetto” svolgeva un mansionario in relazione con una figura gerarchicamente superiore, depositaria del senso e degli obiettivi (forse, quando gli stessi non erano precisamente dettagliati dalla norma). Una tale figura risulta intercambiabile, può arrivare al proprio posto, nel sistema, in qualsiasi momento senza bisogno di particolari tirocini, perché tutto è già preordinato da una “catena di montaggio” burocratica.
È chiaro che la descrizione è paradossale, ed è smentita da tutte le Indicazioni e le Linee guida che con generosità vengono dispensate alle scuole dalla stessa amministrazione ministeriale, ma di fatto gli organici dei docenti si completano ad anno avviato, le immissioni in ruolo “maturano” classicamente a fine agosto e dopo vari e volatili tentativi di dare corpo alla formazione iniziale dei docenti (Ssis, Tfa, Pas, Fit triennale, Fit accorciato dove si prevedeva una quota di esperienza sul campo e dove le scuole potevano giocare un previo ruolo formativo) si è tornati “semplicemente” al concorso.
Dove sta allora il problema? In fondo si sono accorciati i tempi degli iter concorsuali, un giovane che decida di fare l’insegnante non è costretto a investire in formazione tanti anni quanti ne sono previsti per una specializzazione medica o ancora, anche se con fatica, si è compresa la dualità del sistema scolastico (legge 62/2000), riconoscendo, ai fini del concorso, titoli di servizio maturati nella scuola paritaria.
La questione sta nel dover porre l’attenzione a un’evoluta figura di docente. Per esempio, l’ultimo contratto collettivo del personale della scuola statale (Ccnl del 1° aprile 2018) ha fatto proprio il concetto di “comunità educante”, che fa saltare l’automatismo “competenza disciplinare – superamento del concorso – inserimento nel sistema (cattedra)” e introduce anche una dinamica in cui il docente si libera dalla gabbia di funzionario e assume la più confacente veste di professionista in relazione e in continua evoluzione e che richiede l’immersione nel “fare” per acquisire l’esperienza del “fare” oltre la competenza e la conoscenza per “fare”.
Un amico e collega ha recentemente ricordato, a questo proposito, che il contesto scuola necessita di adulti consapevoli di avere bisogno gli uni degli altri, soprattutto nell’attuale contesto profondamente mutato.
Da qui la necessità di costruire contesti operativi saldi, stabili, coerenti con la domanda del territorio e delle famiglie (espressa o implicita), il che implica far evolvere il profilo del docente, riconsiderare il ruolo delle scuole (non solo del dirigente, per evitare epidemie di orticaria) nell’individuazione delle competenze necessarie a gestire la propria offerta formativa sia in termini di personale a tempo indeterminato che determinato.
Perciò non è sufficiente accontentarsi di un concorso, occorre riprendere in mano la questione e avere il coraggio di immaginare delle nuove possibilità come percorsi universitari specifici (sul modello francese, per esempio) e dedicati all’insegnamento, assegnare un ruolo attivo delle scuole nel processo di formazione e un ruolo attivo delle associazioni professionali.
Riprendendo la suggestione della scuola come bottega artigiana, dove ciascun alunno è “quell’opera unica” su cui concentrare sforzi e risorse, diviene indispensabile, con la preparazione accademica e prima dell’assunzione formale, immaginare un’adeguata immersione al suo interno, cominciare a lavorare al “pezzo” per imparare il mestiere, capire per tempo se è la strada giusta e forgiare la professionalità.