E così, mentre i telegiornali, tutte le sere, commentavano la curva in salita dei dati epidemiologici, sottolineando il fatto che la nostra situazione era migliore di quella degli altri Paesi europei, siamo nuovamente caduti dentro al fossato. Come se il fatto che la nostra situazione fosse migliore, avesse offerto una garanzia di salvaguardia.
Adesso, se il nostro Paese avesse una nonna saggia, gli direbbe: “Te l’avevo detto!”. E il Paese, ancora immerso nell’atmosfera narcisistica di “Abbiamo fatto meglio di altri!”, improvvisamente richiamato alla realtà, abbasserebbe lo sguardo, in un atteggiamento puerile di vergogna e resipiscenza. Infatti, si rimane increduli, a fronte di questa cronaca annunciata della nuova marea, in cui adesso stiamo arrancando, per l’inerzia e l’impreparazione inaccettabili.
Per questo, il ministro Speranza, che aveva trovato il tempo estivo per scrivere un libro, probabilmente autocelebrativo, lo ha fatto ritirare dalle librerie, preferendo oggi tacere. Per questo, adesso, anche io scrivo faticosamente, perché, come cittadino italiano, non sono esente da questa condizione di adultescenza (cioè di permanente adolescenza e incompiuta condizione adulta, secondo il conio di Massimo Ammanniti). Ho la sensazione che, nel caso dei comportamenti di noi italiani, abbia una maggiore valenza esplicativa la psicologia piuttosto che la politica. Il silenzio, dunque, sarebbe più agevole, ma la parola, seppur estenuante, qualora sia finalizzata alla comprensione degli errori, rappresenta un atteggiamento adulto.
La politica è stata drammaticamente inadeguata: presbite per ciò che riguarda il destino futuro della nazione, miope nel presente, visibile solo tramite la lente delle tornate elettorali. Purtroppo l’adultescenza riguarda maggioranza e opposizione. Del resto gli antropologi usano una categoria, quella di “personnalité de base” per definire il carattere di una collettività.
Non c’è una definizione politica delle priorità (260 progetti per il Recovery Plan!), anche perché non vi sono dati pubblici su cui riflettere. Al riguardo, potremmo prospettare due ipotesi.
La prima: ammesso che i dati siano stati raccolti, i governanti peccherebbero di mancata trasparenza, perché non li avrebbero offerti al pubblico dibattito; la seconda: chi ci governa non avrebbe piena consapevolezza dell’importanza dei dati stessi. Tralasciando la prima ipotesi, non perché irrealistica, ma perché ci porterebbe troppo lontano, non resta che dire con Quelo di Guzzanti: “La seconda che hai detto”. Infatti, “conoscere per deliberare” è ancora oggi un’inutile predica einaudiana.
Ad esempio, siamo certi che la scuola favorisca la diffusione del contagio? La mia esperienza di preside di un istituto superiore, ma anche quella di molti altri colleghi, suggerisce che, in Toscana, non vi sia un numero significativo di contagi scolastici: gli alunni, che spesso vanno in quarantena, al termine della stessa presentano i risultati negativi dei tamponi. Eventuali studi sulla tracciabilità potrebbero dimostrare come l’ipotesi di noi presidi sia attendibile, oppure no. Se lo fosse, ciò significa che i contagi degli alunni avvengono fuori, quando questi viaggiano nei mezzi pubblici per venire a scuola oppure quando trascorrono le serate immersi nella movida. Il punto è: il Comitato tecnico-scientifico ha compiuto studi al riguardo? Li ha commissionati? Forse, assieme ai medici e agli statistici, occorrerebbero i sociologi per interpretare i dati, una volta raccolti. Così potremmo sapere quali siano stati i percorsi e i luoghi di contagio. Forse avremmo potuto evitare di chiudere la scuola, se solamente fossero stati ristrutturati i trasporti.
Siamo certi che l’apertura delle scuole a partire dalle ore 9, prevista nel Dpcm del 24 ottobre, rappresenti una condizione favorevole all’abbassamento dei contagi?
Sono state compiute delle indagini, territorio per territorio, atte a dimostrare l’importanza di un tale discrimine orario?
Per esempio, nelle metropoli, dove si ha un sovraffollamento nei mezzi di trasporto, il vincolo di entrata non prima delle 9,00 può valere. Ma non sempre. In un piccolo paese, ad esempio, dove l’uso dei mezzi pubblici è ridotto e il flusso di popolazione ha luogo in uscita, quando la mattina molte persone vanno a lavorare nelle città limitrofe, che senso ha il vincolo delle 9, se gli alunni in entrata non sono numerosi?
I dati sui flussi di pendolarismo (perlopiù attestati dagli abbonamenti) dovrebbero essere studiati, per capire se l’entrata dalle 9 abbia senso. Perché non è stato fatto?
Ma la politica, da noi, non si cura più di tanto di conoscere i dati, quanto di sbandierare un punto di vista ideologico, utile a erigere barricate nell’arena dei dibattiti. Parole rispettabili come “libertà”, “solidarietà”, inclusione”, “onestà”, ecc. degenerano nell’iperuranio della politica, mentre si affida la concretezza delle cose all’amministrazione, la quale versa nelle cattive condizioni che conosciamo. Quest’ultima, infatti, appare ossequiosa verso la formalità degli atti e contestualmente disinteressata all’efficacia degli stessi. Le nebulose ideologiche e i malfunzionamenti amministrativi creano così la miscela dannosa che corrompe il Paese.
Forse questo è il momento di ripensare la politica, considerando che la carica di cambiamento non si esaurisca nelle dichiarazioni di principio. Essa dovrebbe comportare, infatti, un atteggiamento pratico, accurato nella progettazione esecutiva e nell’organizzazione, attento all’implementazione delle prassi. Una politica competente e manageriale.
Tutto ciò, inevitabilmente, ha a che fare con il valore della conoscenza, come fondamento delle scelte politiche e della loro attuazione. Non c’è da meravigliarsi se la scuola e l’università, avamposti della conoscenza, non godano più di tanto di attenzione da parte dei politici: il disinteresse verso i dati si estende inevitabilmente alle istituzioni che rappresentano la conoscenza stessa.