La grande agitazione attorno alla riapertura delle scuole farebbe piacere, se fosse il segno di un’abituale e condivisa considerazione di questa come un asset strategico per il paese. Invece è chiaro che sulla scuola si sta consumando un po’ di scontro politico. E non è mai sicuro che da questo si generi poi giudizio, progetto e azione.
Dopo il quadrimestre drammatico, conseguenza dello scoppio della pandemia e delle tragedie sanitarie, il problema era garantire un ritorno a scuola in sicurezza a settembre. Perciò, prima la corsa forsennata per fare 2,4 milioni di nuovi banchi che in qualche modo dovrebbero garantire la sicurezza, mentre si sta a lezione. Poi la gimcana fra le norme per reperire diverse decine di migliaia di insegnanti mancanti con la soluzione, ragionevole, adottata per infermieri e medici durante l’emergenza Covid, di pescarli fra quelli che sono avanti nel percorso per fare quel mestiere.
Per essere positivi e non disfattisti, si potrebbe dire che quando si vuole escono impegno, soldi e si vincono le metastasi della burocrazia. Se però si ragiona meglio, le falle sono tante.
L’emergenza attuale va collocata dentro una prospettiva in cui appare molto probabile aspettarsi l’arrivo dei vaccini a partire dalla tarda primavera e mentre è già chiaro che oltre al tempo in classe contano tutti gli altri segmenti, cioè trasporto, accesso e condivisione degli spazi oltre le lezioni. Erano così inevitabili allora, i milioni di banchi?
Non è che la proposta di alcuni vertici sindacali (per fare un esempio, Massimo Masi della Uil Credito e Pino Turi della Uil Scuola) di usare le centinaia di locali, strutture, sedi e filiali lasciati vuoti dal mondo bancario potevano supplire con una spesa infinitamente più bassa al problema dei distanziamenti? Insieme, ovviamente, a una grande collaborazione organizzativa (e burocratica) per articolare meglio le giornate lavorative e quelle scolastiche, per consentire le coperture assicurative e contrattuali al personale per un anno originale ed emergenziale? Non è che un’altrettanto originale collaborazione per un anno con il microcosmo dell’educazione non statale (che comprende le scuole private oltre ad esperienze pregiatissime di scolarità parentale), poteva offrire lo spunto per un grande progetto-cantiere nazionale?
Il rapporto rilasciato la scorsa primavera dal Fondo di Beneficienza di Intesa Sanpaolo in collaborazione con la Fondazione Lang ci ha ricordato che l’Unione Europea nel 2010 si era data l’obiettivo per il 2020 di un tasso di abbandono scolastico sotto il 10% e di un livello di giovani laureati di almeno il 40%. Eurostat per il 2018 attesta che su 27 paesi dell’Unione, in 17 hanno raggiunto l’obiettivo. L’Italia è fra quelli che non l’hanno raggiunto e che, già al quartultimo posto con il 14,5%, vede un peggioramento nel 2017 e 2018.
Se si aggiunge la “dispersione implicita” (che non è una frase giornalistica, ma un dato tecnico che misura le lacune sostanziali nelle cognizioni chiave), l’Italia avrebbe una dispersione del 20%. Un quinto della (poca) popolazione giovanile che sopravvive al calo demografico e alla nuova emigrazione, è compromesso. Seriamente.
Su questo non abbiamo sentito lo stesso scontro politico e vinceremmo una facile scommessa se prevediamo che alla fine di questa tragedia sanitaria tutti i dati saranno peggiorati (malgrado i 2,4 milioni di banchi e i 70mila nuovi imbarchi nella grande macchina scolastica statale).
Il rapporto di Banca Intesa e della Fondazione Lang, peraltro, suscita un’idea che potremmo definire Sussidiarietà 2.0. Lo studio racconta le esperienze straordinarie di alcune associazioni e persone che valgono (minimo) l’onore della citazione: Next-Level con Caterina Corapi e Roberto Marcone; Fiumara d’Arte di Antonio Presti; Fondazione Domus de Luna con Ugo Bressanello e la sua grande rete di associazioni amiche; Cometa Formazione con Alessandro Mele; Laura Ghezzi e la Cooperativa La Strada, che è ormai un pezzo di storia di Milano e non solo.
La banca, nell’aiutare e raccontare i progetti sostenuti, spesso intrisi di genialità e umanità commoventi, ha portato nel dialogo con i suoi interlocutori il metodo imposto dal proprio profilo per cui il rapporto offre anche schemi di valutazione e linee guida per “fare del bene”.
Il “welfare generativo”, ricorda il rapporto, impone non solo che si documenti dove vanno le risorse, ma che si misuri l’impatto sociale in termini di valore aggiunto. L’intervento presuppone un’analisi di partenza (beneficiari, competenze, contesto, metodologia di analisi dei dati) che spieghi l’aspettativa d’impatto, cioè il cambiamento sostenibile di lungo periodo (di una persona o di una comunità) che si vuole innescare. E su cui poi si giudicano i progetti, i risultati intermedi, si codificano gli indicatori, si analizzano errori e insuccessi e si accresce la competenza generale per un efficace approccio al problema.
Il discorso non va visto solo come una delle espressioni più qualificate di coscienza e maturità del terzo settore, che prende sul serio il compito peraltro riconosciuto dalla legge (106/2016) e passa dalla spinta individuale al bene, alla chiarificazione del percorso che serve per diventare efficaci e ottenere risultati. Piuttosto va visto come il metodo e la testimonianza di cosa vuol dire approcciare un fenomeno complesso e dai risvolti molto seri e di quanto bisogna andare a fondo, fuori dagli schemi e ingaggiare la cooperazione di tutto il contesto umano che gli ruota attorno, per ottenere risultati.
Lo Stato, che ricordiamolo sempre è l’elenco delle istituzioni, enti centrali e periferici e persone che per rapporto d’impiego o per incarico politico pro-tempore lo rappresentano, non è in grado da anni di svolgere nessun lavoro di riforma di nessuna delle aree dei suoi compiti essenziali: giustizia, educazione, burocrazia, allocazione equilibrata delle risorse, sicurezza del territorio, chiarezza del quadro normativo eccetera.
Certe pagine di sussidiarietà e di terzo settore, allora, devono diventare un punto di paragone obbligatorio per il primo settore, lo Stato appunto. Che è come uno studente abbandonato in condizioni e contesto disperati. Qualcuno se ne deve occupare prima che diventi impossibile.