Adesso che sappiamo che la distanza di sicurezza in classe sarà di un metro tra le “rime buccali” (cioè più o meno come prima del Covid), adesso che sappiamo che sarà meglio differenziare gli ingressi (ma queste son noci da rompere per chi gestisce i trasporti più che per la scuola), insomma adesso che sappiamo come essere linea-guidati verso standard di sicurezza sanitaria, possiamo finalmente… dedicarci ai fantasmi. Il fantasma che si aggira, o meglio si aggirerà, tra i banchi di scuola da settembre e che pochi sembrano vedere, perché i fantasmi sono birichini, è rappresentato dalla categoria dei “promossi grazie al Covid”. Parliamo di quella massa imponente di studenti, quasi 550mila (21% del totale secondo una fonte Miur) che negli scorsi anni doveva presentarsi a settembre per riparare insufficienze oppure che andava ad ingrossare le fila dei bocciati (altri 200mila circa ogni anno, 7,5% del totale) e che quest’anno si ritrova promossa nonostante le insufficienze.  



Le ordinanze ministeriali hanno di fatto vietato alle scuole di fermare i pluri-insufficienti e si calcola che le non ammissioni siano state quest’anno meno del 10% di quelle degli anni precedenti. Come dire che in ogni classe di liceo, tecnico o professionale troveremo a settembre almeno sette/otto studenti che non hanno raggiunto standard minimi di preparazione in un numero di discipline che oscilla, per ciascuno, da uno e dieci.



Non interessa qui valutare se sia stato inevitabile o meno fare questo passo; importa piuttosto notare che l’emergenza sanitaria di cui molto si parla e scrive è oggi solo una possibilità, mentre è una certezza assoluta l’emergenza didattica o meglio educativa. Certo “emergenza educativa” è espressione logorata ormai dall’uso, ma è difficile trovarne di migliore davanti a oltre 750mila potenziali arrancanti sui tornanti della scalata ad apprendimenti significativi. 

Per armare le scuole ad affrontare questa emergenza il lessico buro-pedagogico delle stanze ministeriali ha coniato qualche nuova sigla. Così sono entrati in menu del ristorante scuola i Pai (Piani di apprendimento individualizzato) e i Pia (Piani di integrazione degli apprendimenti). Sopra essi, come classica spolverata di cacio sui maccheroni, è calata anche un po’ di rigidità formale. Inutile chiedersi che senso abbia scrivere che bisogna fare un Pia anche per le materie che non continuano (es. quelle che dalla seconda e la terza superiore escono dal curricolo). Ma inutile anche fermarsi al lamento per quello che poteva essere (o essere diverso) e non è stato.



Il tema di oggi è l’imponente sfida all’innovazione scolastica che questo difficile passaggio comporta. Che cosa significa “recuperare” apprendimenti non avvenuti? È la stessa cosa lavorare per chi ha una fragilità in una sola disciplina e per chi non si è raccapezzato su nulla in un intero anno scolastico? Bastano ancora i vecchi corsi di recupero (magari di striminziti quindici giorni a settembre) o bisogna cominciare a pensare a veri e propri percorsi che aggrediscano in modo differenziato le difficoltà individuali? E abbiamo le forze (di risorse umane e ancor più di libertà normative) per costruire, all’interno di curricoli rigidi, questi percorsi? Abbiamo la capacità di pensare allo studente che impara e impara ad apprendere non come un lego di tanti mattoncini da giustapporre meccanicamente (i pezzi di disciplina da recuperare coi Pia-Pai), ma come un organismo che cresce?

In una estate che si annuncia senza tregua, le scuole italiane, i docenti e i presidi di buona volontà, sono chiamati a imbastire i piani di battaglia per affrontare la sfida.

Da subito c’è da giocare la carta del riorientamento: aiutare chi è andato avanti, ma in una strada che non gli è congeniale, a valutare ed eventualmente abbracciare strade alternative. C’è da accompagnarlo in quella corsa ad ostacoli che a volte diventa la decisione di cambiare indirizzo di studi. Detto per inciso: ha ancora senso continuare ad insistere sugli esami integrativi (gli esami per passare da una scuola a un’altra e sanare le materie non fatte nel vecchio percorso) in cui tra l’altro chiedere tutte sufficienze? Non sarebbe invece ora di passare a un sistema di riconoscimento dei crediti che faciliti i passaggi?

Soprattutto ci sono da costruire percorsi innovativi, a forte essenzializzazione dei contenuti, che possano durare anche l’intero anno e che, sotto la trama delle particolarità disciplinari, si preoccupino di strutturare un ordito che si chiama motivazione, atteggiamento, metodo, possesso di strumenti adeguati per lo studio.

Si tratta di pensare per tutti un anno diverso, che vada veramente a restituire quel che la didattica a distanza ha tolto: in primo luogo la pratica di laboratorio, la dimensione del lavoro comune, i percorsi aperti sul territorio. E si tratta di non disperdere quel che la didattica a distanza ha insegnato: le potenzialità delle tecnologie, la possibilità di pensare anche il lavoro a distanza come parte essenziale del tempo scolastico.

Lo scenario inclina ad una forte possibilità di cambiamento. La tentazione contraria è pensare che tutto possa tornare come prima e si debbano semplicemente “smaltire le scorie” di un anno disgraziato. La differenza tra prima e seconda alternativa sta nella capacità della scuola reale di non lasciar cadere la domanda che ragazzi e famiglie pongono. Il che necessita di atti concreti dell’apparato di governo della scuola; atti che escano da una logica prescrittiva (“vi dico che cosa fare”) per entrare in quella facilitante (“mi concentro sulla semplificazione e rimuovo gli ostacoli che vi impediscono di fare quel che avete pensato”). Con il coraggio di chi intende finalmente imboccare la strada dell’autonomia reale. È chiaro che questo vale nella auspicata prospettiva di fine dell’emergenza sanitaria. Ma se l’emergenza sanitaria dovesse continuare, tutto diventerebbe veramente inevitabile.

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