Qualche tempo fa circolava sui social network la fotografia di una scritta pitturata sul muro di una città; la frase recitava: “In un mondo che ci obbliga all’eccellenza, fare schifo è un gesto rivoluzionario”. Senza contare le sue innumerevoli riproduzioni, quel solo post aveva raccolto diverse migliaia di condivisioni. Ironia, provocazione, senso di protesta? Certamente i motivi dell’enorme numero di persone che ha condiviso quell’immagine potevano essere questi e molti altri, tra cui spesso uno scialbo spirito anarchico e polemiche senza fondamento. Eppure quell’affermazione offre almeno due intuizioni interessanti.



Le condizioni della scuola – dall’organizzazione del sistema scolastico alle circostanze contingenti di ogni istituto e di ogni allievo – paiono diventate sempre più difficili, tanto da mettere i docenti a dura prova. In una situazione simile ci si domanderà quale valore può avere l’idea di “fare schifo”. Premesso che non si intende ovviamente elogiare nessuna forma di lassismo formativo, né proporre forme alternative di istruzione (anzi!), ci si può però chiedere quale può essere oggi un vero “gesto rivoluzionario”.



La provocatorietà di quella frase scritta sul muro trova forse la sua prima spiegazione nella condizione iniziale: un mondo che ci obbliga all’eccellenza. È forse un caso che il linguaggio corrente faccia un sì largo uso di termini come “successo, primato, leadership”, e sempre meno parli di talento, curiosità, abnegazione, passione, ricerca? È vero: la situazione dei giovani è assai difficile (ma siamo sicuri che l’istruzione lo sia più di altri tempi, o di appena qualche decennio fa, quando il tasso di analfabetizzazione era del 48%?) e indagarne cause e soluzioni è importante. Ma può essere l’idea o la corsa all’eccellenza, come oggi è intesa, tra queste?



Gli studi e le statistiche mostrano sempre più diffusamente che una scuola che non si occupa di trasmettere conoscenze produce scarsi risultati. Così è, e queste conoscenze dovrebbero tornare ad avere ampio spazio. Ma che fare se tali conoscenze e competenze vengono scambiate per continui punti da acquisire, come in un videogioco in cui l’unico obiettivo è scalare la classifica? che fare quando i punti non sono solo quelli da raggiungere a scuola, ma in ogni aspetto dell’esistenza, dallo sport alle interazioni sociali, agli hobby, finanche alla dimensione del gioco, la cui essenza stessa dovrebbe essere giocare?

Si critica l’eccesso, la velocità, l’iperconnessione: ma chi realmente (ci) permette di fare diversamente? chi è pronto a spendere le proprie energie per creare un’alternativa attraente e percorribile? Chi si lamenta del disastro giovanile, della mancanza di voglia e curiosità dei ragazzi coincide spesso con chi ripete ai propri ragazzi, allievi o figli, che bisogna essere duri, bisogna farcela, perché il mondo è difficile, il lavoro non si trova, la pensione è importante. Non è forse questo che chiunque oggi abbia dai 2 ai 30 anni si sente ribadire in un loop esasperante e senza fine? non è questo che anima i commenti di nonni e genitori che, a bordo campo, urlano (pur inconsapevolmente) ai loro bimbi di 5 anni, usciti mezz’ora prima dalla scuola dove hanno trascorso 8 ore, che non stanno correndo abbastanza, non stanno facendo abbastanza goal, non stanno intrattenendo abbastanza rapporti sociali coi propri compagni, non si stanno concentrando abbastanza? Persino la classica frase che si è soliti dire ai bambini prima di un’attività, “Mi raccomando: divertiti!”, sembra diventata l’ennesimo imperativo morale, l’ennesimo compito da sostenere.

Sin da piccoli ci si sente ammonire di non sprecare tempo (con la conseguenza di sprecarne, in definitiva, molto di più), di essere lungimiranti, guardare al futuro (con la conseguenza di non riuscire a vedere neppure il presente, ad immaginare nulla di diverso da ciò che si deve fare), di essere i migliori. Bisognerebbe allora dar vita a un elogio della diseccellenza? Sì o no, a seconda di che cosa si intende.

(1 – continua)